Fresco di Pritzker Prize 2016, per il suo modo di fare architettura con impegno, il cileno Alejandro Aravena, curatore della 15a Biennale di Architettura di Venezia (28 maggio / 27 novembre) racconta la sua radicale prospettiva che riporta l’urgenza sociale al centro dell’azione del progettista
Ricordiamo la sua attenzione alla rivista Interni, quando iniziammo una collaborazione per l’evento Hybrid Design, in concomitanza del FuoriSalone 2013 a Milano. Trascorsi tre anni, la ritroviamo come curatore della Biennale di Architettura di Venezia dedicata all’architettura, con un titolo, Reporting from the front, che già, in nuce, racchiude il radicale cambio di prospettiva impresso alla 15esima edizione in corso. Meno estetica più etica potrebbe esserne il sottotitolo. Ma non si può progettare nè vivere senza un certo grado di approssimazione diceva Gillo Dorfles durante la Triennale di Milano del 1951, aggiungendo, e neppure senza il bello. Lei che cosa ne pensa?
Nemmeno per un secondo abbiamo rivendicato alcun tipo di superiorità morale o di obbligo etico nel fare architettura. Questi aspetti appartengono alla sfera privata e personale, e non siamo sacerdoti. Invece crediamo nella necessità di contribuire alle domande difficili con qualità (e non carità) professionale. Penso che nel raggio d’azione dell’architettura, esista un estremo artistico e culturale, secondo il quale il valore di una proposta si misura nel suo massimo grado di originalità. L’atteggiamento qui è: ‘Mai prima d’ora, mai ancora’.
Ma dall’altra parte dello spettro, la proposta di valore si restituisce esattamente al contrario: più si è ancorati alla società, meglio è. In quest’ultimo caso, il risultato di un intervento dovrebbe essere replicabile e ripetibile all’ennesima potenza. Questo può significare che il peso della nostra attività sia rilevante per la collettività. Noi crediamo che l’architettura non dovrebbe trovarsi a scegliere l’una o l’altra di queste posizioni, dovrebbe invece essere in grado di progettare forme che si trovino allo stesso tempo su entrambi i lati dello spettro. Questo succede molto raramente, ma è a quei momenti, quando è sia d’impatto che unica, ancorata e originale, che dobbiamo tendere. Di fatto, l’architettura è fatta per rispondere a circostanze specifiche ma non può esserne l’unica conseguenza.
La casa per tutti. Nel suo appassionato lavoro svolto in Sud America sull’edilizia sociale ha dimostrato che è possibile realizzare architettura di qualità a basso costo, concependo dei moduli prefabbricati dotati di tutte le funzioni base (bagno, cucina, allacciamenti) per lasciare poi all’abitante la fase di personalizzazione secondo i propri desideri…Qual è la sua misura di un existenz minimum?
Vorrei iniziare dicendo molto chiaramente che costruire case con una logica incrementale non è una scelta, ma una necessità. Non ci sono abbastanza soldi per realizzare abitazioni di classe media. Nel migliore dei casi, i governi sono in grado di offrire unità abitative di 30 mq o 40 metri quadrati. Questo è un fatto. Così, invece di ridurre le dimensioni, come solitamente succede, abbiamo pensato di affrontare la scarsità di risorse con un principio di accrescimento. Non è possibile fare tutto. Pertanto facciamo soltanto ciò che non può essere fatto individualmente dalle persone stesse.
Ecco perché forniamo la struttura e da lì in poi gli abitanti diventano i protagonisti. Una famiglia della middle class può vivere ragionevolmente bene in circa 80 metri quadrati. Invece di pensare ai 40 mq come all’equivalente di una piccola casa, li consideriamo come la metà di una buona. Con ELEMENTAL, coinvolgiamo gli abitanti nel processo di comprensione di limiti e priorità, attraverso un processo di progettazione partecipata, per focalizzarci successivamente su ciò che è davvero importante per loro. In questo modo, identifichiamo i requisiti che appartengono alla ‘hard half’, e costruiamo esattamente ciò di cui hanno bisogno. Abbiamo sperimentato che l’ampliamento dell’alloggio da parte dei fruitori, che passa da una condizione iniziale di casa popolare a un’abitazione di classe media, può avvenire soltanto in poche settimane.
La trasformazione delle città corre più veloce di quella delle case che sembrano aver perso importanza nel tempo della vita delle persone. Temi emozionali e non soltanto funzionali ‘traghettano’ gli spazi umani in luoghi condivisi. In Italia, per esempio, con recenti esperienze di social housing, la comunità si impegna attivamente a costruire zone di incontro e attività di relazioni pubbliche (tra ballatoi, atrii, cortili, tetti, lavanderie, orti). Sono migliorie di piccole parti, progetti che fanno del concetto di resilienza una prospettiva concreta e non utopistica…come interpreta questa tendenza?
Stiamo sperimentando una sfida globale legata all’urbanizzazione. È un fatto che la gente si stia muovendo verso le città; e, anche se questo può sembrare intuitivamente non ovvio, è una buona notizia. Le città comprendono intrinsecamente frizioni e barriere, ma anche la possibilità di offrire una miglior qualità della vita, dal momento che la prosperità economica degli ultimi decenni ha generato risorse e politiche pubbliche per affrontare queste tematiche.
Tuttavia, la scala degli interventi, la velocità e la penuria di mezzi con i quali dobbiamo rispondere a questo fenomeno non hanno precedenti nella storia. Di 3 miliardi di persone che vivono nelle città oggi, un miliardo è sotto la soglia della povertà. Entro il 2030, su 5 miliardi di persone che vi vivranno, 2 miliardi saranno sotto questa soglia. Ciò significa che dovremo costruire una città per 1 milione di nuovi abitanti a settimana, durante i prossimi 15 anni, avendo a disposizione 10.000 dollari per nucleo famigliare. Se non risolviamo questa equazione, la gente non smetterà di migrare nelle metropoli. Ci andrà in ogni caso, ma vivrà in baraccopoli, favelas e insediamenti spontanei. Pertanto, la scommessa fondamentale è quella di costruire una visione per le nostre urbes. Questo dipende dalla lungimiranza delle istituzioni pubbliche, ma anche dalla coscienza e dall’attivismo della società civile.
Gli architetti, in particolare, possono svolgere un ruolo significativo: grazie al potere di sintesi dell’architettura, abbiamo la grande opportunità di tradurre in forma tutte quelle forze conflittuali, fornendo soluzioni per la complessità della società contemporanea. Una risposta può giungere dalla canalizzazione del potenziale propositivo e creativo dei singoli. Le città possono rappresentare un veicolo trainante positivo. Abbiamo soltanto bisogno, come comunità e come architetti, di essere abbastanza creativi per identificare le opportunità strategiche e declinarle in proposte e progetti. Le esperienze che avete citato riflettono la necessità di coordinare le singole azioni in modo che possano produrre un bene comune. L’incontro tra le persone è fondamentale per la creazione di opportunità.
Comunque, se si guardano periferie, slums e zone disfunzionali di una città, si nota che non ci sono due comunità che vivono nello stesso modo. Massicci flussi migratori corrispondono a una migrazione di culture e ad altri fenomeni (accoglienza, sovraffollamento, nomadismo…). Come si integra la ghettizzazione di uomini meno ricchi e fortunati dentro la metropoli? Quali strumenti può mettere in gioco l’architetto per attenuare le disuguaglianze e favorire un’integrazione di qualità?
La disuguaglianza rappresenta un enorme problema. I conflitti sociali e gli attriti politici tendono a scaturire non tanto dalla povertà, quanto dalla disparità. Se si guardano i numeri, in termini di sviluppo globale del pianeta, oggi meno persone muoiono per non avere accesso all’acqua, a una rete di fognature, all’energia elettrica. Il reddito è cresciuto, siamo meno poveri, ma distribuiamo peggio la ricchezza. Il gap si corregge principalmente con la redistribuzione del reddito, ma bisognerà attendere almeno un paio di generazioni perché questo si realizzi compiutamente. Tuttavia, abbiamo visto che la città può rappresentare una scorciatoia verso l’equità, quando si individuano e si sviluppano progetti strategici.
Per esempio, l’efficienza del sistema di trasporto pubblico. Perché nella periferia dove puoi permetterti di vivere, con lo stesso salario che hai oggi, potresti sperimentare un notevole miglioramento della qualità della vita se, per raggiungere il posto di lavoro, ti sedessi su un bus invece di restare in piedi schiacciato per ore. Ovviamente questo potenziamento costa, ma molto meno che cambiare la morfologia urbana.
Un altro esempio riguarda lo spazio pubblico. In una città come Santiago, che non è di certo la più povera al mondo, su sei milioni di abitanti, tre non possono permettersi di andare in vacanza. L’unica opportunità che hanno per trascorrere un momento di relax, magari con i propri figli, è quella di fruire di uno spazio pubblico, a oggi molto povero e insufficiente in qualità. Una città potrebbe e dovrebbe essere misurata per ciò che si può fare gratuitamente in essa. Ecco perché lo spazio pubblico è, per sua natura, redistributivo.
Come vede il lavoro sulle periferie italiane che sta portando avanti Renzo Piano?
Ci sono numerose sfide rispetto alla “città sociale” già in essere nelle periferie. La loro mediocrità e banalità talvolta sono conseguenza di un’urgenza politica, per cui la mancanza di qualità è il prezzo che abbiamo pagato per raggiungere una certa quantità di unità abitative. Talvolta corrisponde al miope approccio del mercato. Talvolta al prevalere di vuote teorie urbane sul buon senso comune. Il significativo lavoro di Renzo Piano, che analizza in profondità lo stato attuale delle periferie, genera la maggior consapevolezza pubblica su questi temi.
A cura di Antonella Boisi