foto di roland halbe
testo di alessandro rocca
Quattro livelli, tre spazi epsositivi flessibili di circa 1000 metri quadri ciascuno, tre anni scarsi di cantiere: la nuova sede della Frac (Fond Régional d’Art Contemporaine) della Bretagna rappresenta una politica culturale che funziona bene, un modello di decentramento che si radica nelle realtà locali e che punta su identità che non si fermano alle tradizioni ma che si proiettano nella dimensione contemporanea.
“Frac della nuova generazione” era il titolo di una mostra che, l’anno scorso a Lille, presentava le quattro sedi più interessanti in corso di costruzione: quella appunto della Bretagna, che oggi è la prima a essere terminata, e le altre tre attese per il 2013: l’avveniristica Frac di Orléans, di Jakob + MacFarlane, la Frac completamente trasparente di Dunkerque, di Lacaton & Vassal e la sede per la regione Provence- Alpes-Côte d’Azur, che porta la firma dell’architetto giapponese Kengo Kuma e che partecipa allo sviluppo del dinamico distretto Euromediterraneo di Marsiglia, insieme ai nuovi edifici di Zaha Hadid, Frank Gehry, Rudy Ricciotti e Stefano Boeri. L’incontro tra lo spirito innovativo e contemporaneo del progetto Frac e Odile Decq non poteva che essere positivo; infatti Decq si è sempre contraddistinta per lo slancio avanguardistico e per la capacità di assumere le idee più provocatorie e spericolate e di svilupparle poi in modi professionalmente impeccabili. A iniziare dal suo primo successo realizzato con Benoît Cornette (scomparso in un incidente d’auto nel 1998), proprio a Rennes, la sede della Banca popolare d’Armorique, che mostrava una splendida facciata hi-tech realizzata in collaborazione con Peter Rice (senza dubbio il miglior strutturista del secondo Novecento). Per arrivare ai giorni nostri con due progetti, inaugurati nel 2011, che affrontano con molta attenzione i vincoli imposti da edifici e contesti storici di particolare rilievo, il ristorante realizzato nel porticato dell’Opéra Garnier, a Parigi, e il Macro, il nuovo Museo d’Arte Contemporanea di Roma. Negli interni, l’edificio di Rennes appare un po’ come un gemello diverso dell’analogo romano; sviluppati in contemporanea, e con la stessa identica funzione, i due progetti presentano la stessa abilità nel frantumare e dilatare gli spazi oltre il cubo prospettico, nel collegare visivamente livelli e ambienti diversi, nello stimolare l’attenzione del visitatore con una serie di scorci sorprendenti e di contrasti tra strutture reticolari, nere, e volumi conclusi, in rosso, in un teatro hi-tech un po’ feroce ma ormai quasi familiare. Questa volta la sorpresa, al contrario della condizione introflessa del Macro, è all’esterno, dove Decq immagina un volume monolitico squarciato da ampie ferite e che si sfrangia sia verso il terreno che verso il cielo. Il monolite evolve in un congegno spettacolare, barocco, che mette in scena un’icona basata sulla gravità in sospensione, in cui l’accento leggero del tetto svolazzante fa da contrappunto al severo bosco di cemento che fronteggia la facciata principale dell’edificio. Una veduta di uno dei tre spazi espositivi che, in bianco, assicurano l’ambiente neutrale necessario per le opere d’arte; un percorso di collegamento, con le strutture reticolari in acciaio e i colori dominanti del progetto, il rosso e il nero; i collegamenti verticali enfatizzano la continuità spaziale degli interni, che sono immaginati come un allestimento architettonico ad alta sollecitazione emozionale. Il sistema illuminotecnico è stato realizzato da iGuzzini e Luceplan, le porte degli uffici (come le sedute e i tavoli del bar) sono di Vitra.