Le case ci osservano. Il flusso continuo di onde e informazioni generate dalle apparecchiature elettroniche di cui ci circondiamo ha sottratto ai nostri habitat il senso di privacy e protezione per cui sono concepiti.
Una proposta di ridefinzione dei nostri modelli domestici.
La casa, si potrebbe dire, è lo specchio architettonico dell’anima. Quando sbirciamo attraverso le finestre delle dimore che hanno caratterizzato ogni epoca, in realtà osserviamo il subconscio collettivo che si cela in profondità: è come passare da una botola per entrare nei sogni, nelle aspirazioni e in una consapevolezza che è distante quanto familiare. Le nostre case si adattano a chi siamo noi e in cambio noi ci adattiamo a loro: la produzione di nuove domesticità è un forte istinto di sopravvivenza, primitivo e duraturo quanto l’immagine della Capanna primitiva di Marc-Antoine Laugier.
E allora cosa ci raccontano della nostra identità le smart homes che abitiamo? Con quali demoni domestici stanno ora lottando i nostri Roomba? Da quando le nostre case sono state per la prima volta elettrificate e collegate alla rete elettrica agli inizi del XIX secolo, gli elettrodomestici hanno incrementato le loro performance e sono stati sviluppati nuovi apparecchi. Le scope sono state sostituite dagli aspirapolvere, i coltelli sono improvvisamente diventati elettrici. Le pubblicità degli elettrodomestici promettevano più tempo libero per le casalinghe grazie alle prestazioni affidabili e impeccabili di queste apparecchiature. Era questa la promessa della home automation: la casa intelligente ci avrebbe liberato dalla necessità di presiedere tutte le attività.
Man mano che ci spostiamo verso una domesticità impregnata di tecnologia, le nostre case si evolvono in uno spudorato assemblaggio di apparecchiature tecniche, che a loro volta costituiscono i punti nodali di una rete infrastrutturale illimitata in uno stato di connessione costante. Questa consapevolezza acquisita con tanta fatica, che inizialmente ci entusiasmava, ha improvvisamente assunto contorni quasi inquietanti. Una nebbia elettromagnetica abbastanza spessa da essere tagliata col coltello incombe come una cappa sulla città: onde radio, onde luminose, onde radar, onde sonore affollano tutte le bande dello spettro, senza fermarsi davanti a muri né ad architetture, uscendo con un flusso incessante dagli apparecchi con cui conviviamo. Sono loro i nostri veri compagni di vita: parlano con noi e tra di loro, eppure noi li capiamo appena. Progressivamente ci rendiamo conto che proprio il luogo in cui istintivamente cerchiamo rifugio dallo sguardo indiscreto de “l’inquisitore”, come affermava pittorescamente Le Corbusier, è il luogo dove siamo maggiormente controllati. Non c’è posto in cui nasconderti quando è la tua stessa casa a osservarti!
In cambio, non c’è più bisogno di uscire di casa, dato che possiamo starcene comodamente seduti ad aspettare mentre “il fuori” viene “dentro”. La casa intelligente mette in dubbio definizioni architettoniche che per millenni non sono mai state messe in discussione; la sua più grande conquista finora è stata la definitiva sconfitta delle pareti, un elemento architettonico utilizzato per creare la privacy, ma tanto inadeguato per regolare il flusso di informazioni trasmesso dalle nostre case, quanto efficace per impedire la diffusione delle immagini e dei suoni domestici. Stiamo cominciando a renderci conto che è proprio nelle nostre case intelligenti che siamo più esposti, nudi come l’imperatore mentre i nostri apparecchi ci osservano. Abbiamo forse perso il controllo della tecnologia creata per facilitarci la vita?
Non è che anche le nostre case dovrebbero avere una modalità aerea? Forse l’era delle macchine intelligenti richiede un nuovo concetto di architettura domestica: una definizione rivista e corretta della capanna primitiva, costruita su misura per le esigenze del profugo elettromagnetico. Qual è la priorità tra il valore della privacy visiva nei confronti dei vicini e il valore della privacy elettronica nei confronti del mondo intero? Entrambe dovrebbero essere integrate nelle nostre case mediante un rituale quotidiano, analogo a quello di tirare le tende o abbassare la porta del garage. Questa è la sfida delle case dei nostri tempi: diventare più di un semplice supporto passivo per le apparecchiature intelligenti che disponiamo alle nostre pareti. La storia è fatta di corsi e ricorsi, e la funzione della casa come strumento di autonomia, spazio di isolamento dagli occhi puntati su di noi è più di una semplice tradizione borghese moralista: è una condizione necessaria per il perpetuarsi della democrazia.
RAM House (Space Caviar + PROKOSS, 2015)
La RAM House, progettata da Space Caviar e prodotta dall’azienda italiana PROKOSS, è un prototipo domestico che esplora un nuovo concetto di privacy nell’era degli elettrodomestici senzienti e delle comunicazioni basate sui segnali. Mentre lo spazio della casa si satura di apparecchi ‘intelligenti’ in grado di monitorare l’ambiente circostante, il ruolo dell’involucro domestico, inteso come scudo di protezione dallo sguardo esterno, diventa irrilevante: è la casa stessa che ci osserva. La RAM House si colloca in questo scenario futuristico proponendo uno spazio di autonomia elettromagnetica selettiva. Wi-Fi, cellulare e altri segnali radio sono filtrati nel cuore dello spazio da vari schermi mobili di materiali radar assorbenti (radar-absorbent material – RAM) e gabbie di Faraday che impediscono ai segnali di entrare e – cosa più importante – di uscire. Proprio come una tenda, che nella casa tradizionale apre e chiude la vista degli interni sull’esterno, così i pannelli possono essere spostati per consentire alle onde radio di entrare e uscire, a piacimento. La RAM House è una proposta per convivere con la tecnologia anziché subirla passivamente come una presenza costante per default.
di Joseph Grima e Simone C. Niquille