Su queste pagine si è più volte dato conto di come la smaterializzazione di forma e funzione introdotta dal digitale stia generando, nel mondo del prodotto, una reazione uguale e contraria, che spinge il progetto verso un approccio post-razionalista fatto di oggetti dalla concezione talmente tersa da presentare la propria ‘ovvietà’ costruttiva come cifra estetica fondamentale.
Ne è un esempio il cabinet Calesco di Quentin Vuong per Ars Fabricandi, il quale, ancorché fondere le parti in un disegno organico uniforme, le disloca in un corpo aperto e disarticolato, definito dalla giustapposizione attentamente non equilibrata di volumi e comparti.
Questa riduzione ‘molecolare’ dell’oggetto ai suoi elementi basici – solidi e piani geometrici privi di sovrastrutture estetiche di raccordo – esprime un bisogno profondo della nostra epoca, legato al cambio di paradigma che stiamo vivendo.
Se ne è avuta l’ennesima prova all’ultima design week di Milano, che ha visto non solo il trend consolidarsi, ma evolversi verso una sempre più marcata scomposizione estetica dell’oggetto.
Emblematica, a tale proposito, la presenza del canadese Lambert & Fils con due progetti caratterizzati entrambi da soluzioni formali essenziali e ‘perspicue’: la serie di lampade a sospensione Mile, disegnata da Guillaume Sasseville tramite l’appaiamento ortogonale di fette di spazio rese eteree grazie anche all’uso dei led; e la collezione Laurent realizzata in esclusiva per la galleria Armel Soyer di Parigi, in cui la sfera in vetro soffiato opalino tipica delle lampade Bauhaus è stata lo spunto per una composizione di piani sagittali fatti di geometria non trattata esibita allo stato puro.
Un riferimento (non casuale) al proto-razionalismo geometrico di inizio secolo è rinvenibile anche nella lampada Krane di Ladies & Gentlemen Studio e Vera & Kyte per Roll & Hill, che ricorda il classicismo industriale di Behrens declinato in chiave contemporanea.
Il diffuso minimalismo metafisico che sta interessando il mondo dell’arredo è, in effetti, erede diretto del primo approccio razionalista, che si rifaceva alla ‘teosofia’ sovrastorica della geometria (Itten, Mondrian, Rietveld) per contrastare la destabilizzazione culturale causata dalla grande guerra.
Oggi la destabilizzazione non è più di ordine culturale ma cognitivo, causata dal ritmo troppo veloce (in termini evolutivi) con cui il digitale sta ridefinendo la sensibilità umana nei confronti degli oggetti. E se il tratto caratteristico del razionalismo sta nella concezione dell’oggetto come un’addizione di parti che mantengono distinta la loro individualità strutturale, nelle sue evoluzioni più recenti lo stesso approccio si spinge fino a definire il prodotto o il complemento come una presenza funzionale garbatamente disaggregata, scomposta con grazia nei suoi costituenti solidi pre-progettuali.
È il caso del tavolino Zeno di Elena Salmistraro per Stone Italiana, o, ancora, dei vasi Rabbet di Patricia Urquiola per Budri, progetti che tagliano il marmo nel senso imposto da direttrici asimmetriche esatte (la simmetria va evitata perché è una proprietà dell’insieme, mentre qui è in primo piano l’individualità delle parti).
Dal canto suo Filippo Mambretti, nella lampada a sospensione Supernova per MOGG, aggiunge al corpo materiale dell’oggetto un disimpegno ottico che esiste solo nello spazio speculativo, estendendo il frazionamento anatomico dell’oggetto dalle tre dimensioni ordinarie a una quarta dimensione fatta solo di astratta geometria.
Riportare gli oggetti al loro stato ‘elementale’ – ricondurli, cioè, ai loro costituenti fondamentali non ulteriormente scomponibili – significa fare con il design quello che Eugenio Montale ha fatto con la poesia, scolpendo le parole, o le cose, tramite la messa a nudo della loro scarna presenza esistenziale.
E tuttavia c’è ancora, in questo design elementale, la fiducia che vi sia un ordine nell’intimità materiale delle cose, che il progetto può mettere in luce facendo un passo indietro e rispettandone l’alterità estetica: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe […]. Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Eugenio Montale, “Non chiederci la parola”).
Testo di Stefano Caggiano