“The best way to predict the future is to design it”. La frase di Buckminster Fuller stampata sulle borse che, dal 24 novembre scorso, accompagnano i visitatori alla scoperta del nuovo London Design Museum è più che una promessa d’intenti.
Ieri il museo fondato nel 1989 da Sir Terence Conran e dal critico Stephen Bayley si trovava a Shad Thames, in un ex deposito di banane lungo la riva sud-est del Tamigi. Oggi invece si è trasferito a Kensington High Street, nell’ex Commonwealth Institute Building (edificio landmark del 1962 e da anni inutilizzato), in una posizione strategica del tessuto urbano, tra il trafficato dinamismo di South Kensington e la verde quiete del confinante Holland Park su cui si affaccia con ampie vetrate permeabili alla luce, proponendosi come un autentico global hub.
Ha conquistato ben 10.000 metri quadrati, che ne fanno il museo di design più grande al mondo, organizzati sotto lo spettacolare tetto a paraboloide iperbolico con imponenti contrafforti in cemento armato e intorno al vuoto vertiginoso dell’atrio centrale. Da quest’ultimo si snoda la scala che, dal piano terra dove sono shop, caffetteria e spazi per le mostre temporanee, collega al mezzanino e ai due livelli che ospitano quelle permanenti, gli uffici e il ristorante.
Per la precisione, al primo, libreria e archivio Sackler, auditorium e centro didattico della Fondazione Swarovski; al secondo, il ristorante (con arredi Vitra, Artek e luci Flos) curato da Barber & Osgerby, gli studi-atelier per i designer in residenza e lo spazio di 652 metri quadrati riservato all’esposizione permanente (da quella sui 200 pezzi selezionati dai follower in rete all’articolata Designer Maker User con allestimento di Myerscough Studio).
Un layout narrativo che, anche nella composizione, restituisce la percezione di come stia cambiando la disciplina nella proposta museale: il design offre soluzioni ma pone anche domande. In molti hanno partecipato a questo progetto.
E a John Pawson autore del recupero conservativo e del ridisegno del manufatto architettonico negli interni abbiamo chiesto qual è stato l’aspetto più interessante di questa esperienza professionale. “Mi sento molto fortunato”, riconosce. “Il mio primo progetto museale pubblico non è solo nella mia città natale, ma anche molto vicino a casa mia. È stata una bella sfida, perché stavamo lavorando all’interno di un’ icona del modernismo britannico del dopoguerra, un building vincolato. Ma i vincoli possono essere una cosa positiva e contribuire a guidare il pensiero creativo”.
“Qual è stata la fonte di ispirazione principale? Durante tutto il processo di progettazione, ho continuato a tornare al senso di euforia spaziale che ho vissuto quando ho visitato la prima volta l’edificio e mi sono fermato nell’atrio, immerso in una dimensione di vuoto sotto il tetto a paraboloide iperbolico”.
“Cosa mi aspetto che un visitatore cerchi e trovi camminando in questo luogo? Spero che la gente resti sorpresa da quanto sia confortevole, silenzioso e si senta a casa. Ho organizzato le cose in modo che tutti i movimenti siano naturali e istintivi: non si tratta di un edificio che si deve imparare ad usare. Ma nel quale resta possibile incontrarsi; e non solo con il design”.
“Due parole sul confronto e dialogo con il curatore-direttore Deyan Sudjic? Comprensione reciproca”.
Testo di Antonella Boisi