Fin dalle origini, il campo disciplinare del design è stato contrassegnato dal rilancio dialettico tra due opposte concezioni dell’oggetto, quella decorativa propria delle arti applicate e quella razionalista figlia della società industriale. A partire da questa dicotomia, per almeno un secolo (dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Ottanta del Novecento) il progetto d’arredo ha oscillato fra lo spettro dei linguaggi più ornati e figurativi da un lato, legati a doppio filo alle vicende dell’arte visiva, e quello dei linguaggi astratti e strutturali dall’altro, contraddistinti da una concezione ‘architettonica’ del prodotto interprete dell’efficientismo funzionalista interno al paradigma capitalistico. Il pensiero architettonico in particolare ha avuto un ruolo decisivo nel dar vita a un pensiero moderno dell’oggetto d’uso. La ‘missione storica’ propria alla disciplina architettonica, che persegue l’inserimento delle sue opere in un quadro di senso più ampio rispetto a quello della committenza a cui sopravvivono, è stata infatti traslata nel progetto d’arredo che, durante il secolo scorso, si è autoassegnato il compito di provvedere alla ricostruzione razionale della società.
In questo processo di trasferimento della vocazione a trascendere del manufatto materiale è rimasto fuori l’altro grande portato del pensiero architettonico, quello relativo al potenziale “rappresentativo ma non figurativo”, che riconduce le opere edificate ad aeree di senso eccedenti la vita dei singoli individui (come nel caso del potere politico e religioso). Nel suo travagliato percorso di individuazione di una propria via alla modernità, il design storico ha fatto riferimento quasi esclusivo alla logica costruttiva della composizione architettonica, lasciandone da parte la capacità di evocare, senza esplicitare, contesti di riferimento più ampi.