PROGETTO DI WILLIAM SAWAYA
FOTO DI SANTI CALECA
TESTO DI ANTONELLA BOISI

In tema di Hybrid/Metissage, ci sono innesti che si rivelano molto più che semantici, sperimentali, tipologici, perché appartengono nell’essenza all’anima, ne sono lo specchio più autentico e disegnano, forse inconsapevolmente, architetture che restituiscono quanto la vita ha offerto ai suoi abitanti.

È il caso di questa antica e nobile casa di famiglia, sul confine sud del piacentino, fertile terra di castelli e di battaglie, oggi buen retiro di un imprenditore milanese. La sua grande fuga, parafrasando un celebre film del 1963 interpretato da Steve McQueen, si lascia vivere tutta in tre giorni, durante i fine-settimana, quando smessi abiti metropolitani e da globe-trotter, il nostro ritrova ossigeno all’ombra di quell’albero di mandorlo, piantato 500 anni fa, che ancora svetta oltre la balconata panoramica che circonda il severo edificio di probabile costruzione tardo secentesca sul cucuzzolo della collina, al quale si accedeva da un lungo e sinuoso viale, che passava in mezzo alle vigne, partendo dalla strada che ascende alla proprietà. Con la consulenza dell’architetto William Sawaya, ha ‘sbiancato’ un passato foriero di ricordi e ristrutturato la casa conservandone l’identità, ma conferendole altresì un effetto di luminosità e di freschezza che ritrova l’etica contemporanea di un’art de vivre gioiosa. All’esterno la ‘conservazione fotografica’ dell’immagine incontrata, l’austera architettura a più corpi di impianto nobiliare, circondata da un grande parco, si rinverdisce con i toni chiari degli intonaci dati secondo tradizione locale alle facciate, che contrastano con i mattoni a vista delle mura del mastio confinante sviluppato su pianta quadrata caratterizzato da finestre a ogiva e finito da merlatura ghibellina. Negli interni la ristrutturazione osa invece di più: alla radicale bonifica degli impianti si accompagna la ridefinizione volumetrica degli spazi che, pur conservando una gerarchia classica, diventano funzionali a definire una qualità personale dell’abitare. Fluida e aperta. Commenta William Sawaya: “L’intervento architettonico, volutamente leggero e quasi invisibile, ha cercato di valorizzare gli ambienti, spogliandoli da tutto il superfluo accumulato durante gli ultimi decenni. In qualche maniera era come restituire la dignità originale ad un luogo che, con il passare del tempo, si era ingrigito, entrando in uno stato di torpore. Conoscendo bene la famiglia da lunga data, e specialmente le abitudini e le richieste dell’attuale proprietario, non mi è stato difficile modificare e ridistribuire gli ambienti, spostando pareti per ridimensionare, amplificare e fare posto a nuovi spazi necessari per un vivre contemporaneo. La mia costante preoccupazione è stata quella di ridurre al massimo l’impatto di qualsiasi traccia d’intervento, senza però creare falsi originali”. La nuova distribuzione ha previsto al piano terra l’ampio living vista parco, la cucina e un bagno; al primo piano della torre, due generose camere da letto con servizi dedicati; al secondo, un’altra zona notte ospiti e, ancora più su, accessibile da una botola chiusa ancora da rugginosi chiavistelli, la terrazza–belvedere sul paesaggio collinare. Il soggiorno open space comunicante con il parco resta il fulcro della composizione, of course. Segnato dalla presenza di un prezioso camino nero in marmo Calacatta e tappezzato di boiseries in noce scuro si alleggerisce adottando una finitura ovunque decapata dei pannelli lignei che, avanzati di circa 70 cm rispetto alle pareti perimetrali, occultano elementi disegnati ad hoc e alla vista tutto ciò che rimanda a una quotidianità esibita (bar, televisore, hi-fi, bicchieri, piatti, accessori), prestandosi, insieme al pavimento scelto in grandi lastre di pietra biancone fossile e alle travi everywhite del soffitto, alla configurazione di un involucro spoglio e sobrio. È il contraltare ideale, in bianco e nero, per la messa in scena dinamica degli arredi che mixano, al cospetto della simbolica bandiera bianca-verderossa di Mirco Marchelli, pezzi di famiglia, ricordi di viaggio e molti prototipi. “Si potrebbe aprire una disquisizione sul valore che i ‘fondi di magazzino’ hanno avuto in questa casa” spiega il proprietario “perché la scelta di circondarmi di presenze dense di imprecisione mi ha consentito di scoprirne altre potenzialità, contenuti e suggestioni, gli innesti ibridi, la possibilità di riadattamento, i risvolti antropomorfi. C’è, ad esempio, una poltroncina bianca messa in camera, che mi ricorda una zia paffutella e solare”. Dagli accenti pop e dissacranti allo svelarsi di progressive prospettive, un’apertura a lato del camino conduce dal soggiorno alla sala da pranzo e alla cucina, due involucri di asciutto gusto austriaco e slancio verticale, uniformi nella nuance verde acqua scelta per le boiseries a tutta altezza, sempre contenitive, assolute protagoniste insieme all’archetipa sfera di vetro opaco del lampadario appesa a una delle voltine in mattoni a vista riportate in luce sul soffitto. “È questo uno degli ambienti che sento come speciale, perché ha il sapore dei ricordi dell’infanzia, delle torte fresche fatte dalla mamma, anche imperfette ma indimenticabili”. La vena nostalgica si stempera nei piani superiori dedicati alla notte, dove ogni stanza ritrova un decor attualizzato, in una teatralità misurata di sofisticati letti a baldacchino, poltrone revival di stile coloniale in legno e tessuto, carte da parati a righe con mood cromatici specifici, e altri oggetti d’affezione. “Alla fine, devo riconoscere che in queste stanze realizzate con quanto mi aggradava, ma senza portarvi un tono di vigilanza eccessiva, funziona tutto molto bene. Ma resta una casa-guscio che non mi appartiene: sono io che le appartengo. In tre giorni, vedo come sarebbe stata la mia vita se non avessi fatto il bellissimo lavoro che faccio, in un contesto che mi consente ancora di mangiare i cibi dell’orto, cullare l’ozio sotto il pergolato, coltivare piaceri semplici”.