Per progettare il tempo ci vuole pazienza, molta pazienza. Specie se al tempo si vuole dare un alto contenuto di design pensato per esprimere la migliore creatività italiana combinata all’eccellenza della manifattura svizzera. Lo racconta Angelo Bonati, CEO di Officine Panerai, il marchio diventato un simbolo dell’orologeria di alta gamma grazie alla particolarità delle linee dei suoi prodotti e a una storia ‘da film’ che nasce nel 1860 in una piccola bottega di Firenze, per conquistare in seguito il mondo.

Dopo circa un ventennio di esperienza commerciale nel settore del lusso, nel 1997 ha accettato la sfida, propostale dal gruppo Richemont, di lanciare un nuovo marchio che in realtà aveva una lunga storia: Officine Panerai. Ci racconta il percorso che l’ha condotta a questa avventura?

La mia vita professionale nasce in un laboratorio di gioielleria a Valenza Po, dove sono andato perché volevo imparare l’arte manifatturiera del gioiello. La voglia di proseguire in modo autonomo mi ha successivamente portato a Milano; qui ho dapprima lavorato per Standa, poi sono approdato alla distribuzione di orologi e accessori Cartier.

Così è avvenuto il mio ingresso nel mondo del lusso e così è iniziato un percorso che mi ha portato a occuparmi di brand e settori diversi, come quello della ceramica per Ginori, quello del prêt-à-porter per Trussardi, per poi tornare al mondo degli orologi con Officine Panerai. Era il 1997 e già conoscevo la storia di questo laboratorio che per anni era stato fornitore di strumenti di precisione per la Marina Militare Italiana, soprattutto per le esigenze dei corpi speciali subacquei.

I progetti sviluppati in questo periodo sono stati coperti dal segreto militare per anni; tra questi l’orologio Luminor Marina, che si caratterizzava per le grandi dimensioni e il disegno molto originale. Il gruppo Richemont mi ha proposto di guidare il rilancio di questo prodotto che, per quanto avesse un’identità decisamente distintiva, non aveva un marchio altrettanto forte e affermato. Ho accettato con passione la sfida e quello che siamo riusciti a costruire in questi 18 anni mi riempie di grande soddisfazione.

Si è trattato di un percorso fatto nel segno della continuità o della trasformazione?

In quanto fornitore della Marina Militare Italiana, che rappresentava il suo cliente principale, l’azienda aveva visto ridimensionare notevolmente la propria attività con il disarmo conseguente alla caduta del muro di Berlino. Nel suo cassetto aveva però questo orologio, progettato nel 1934, che presentava grandi potenzialità di sviluppo.

Il tentativo della società fu quello di lanciarlo sul mercato con una produzione di circa mille esemplari. L’operazione non ebbe il ritorno desiderato, però fece sì che uno di questi pezzi finisse sul set di Sylvester Stallone che nel 1996 si trovava a Cinecittà per girare “Daylight” e che avendo problemi di vista apprezzò particolarmente il grande quadrante dell’orologio, tanto da chiederne poi una produzione personalizzata con il suo nickname.

Il fortunato incontro fece sì che l’orologio finisse nelle mani di Johann Rupert, presidente del gruppo Richemont, che subito se ne innamorò, tanto da decidere di acquisire nel 1997 il ramo d’azienda legato alla produzione di orologi, binocoli, bussole, profondimetri. Bisognava però decidere cosa fare di questo prodotto che presentava un quadrante maggiore di 10 mm rispetto ai più grandi già presenti sul mercato.

La nostra decisione è stata quella di mantenere le sue caratteristiche distintive: non solo le dimensioni ma anche la semplicità, due elementi che hanno finito per diventare un vero e proprio riferimento per tutto il mondo dell’orologeria. La scelta vincente è stata proprio questa: non cambiare nulla. Abbiamo fatto qualche affinamento, ma la forma del Luminor come del Radiomir è rimasta inalterata. Un’altra scelta determinante è stata quella di contenere la produzione e di preservare così l’originalità del prodotto.

Ci parli della sua collaborazione con Patricia Urquiola.

Il nostro incontro è avvenuto in occasione della mostra “O’Clock – time design, design time” allestita alla Triennale di Milano nel 2011 di cui Panerai era lo sponsor. La personalità creativa di Patricia Urquiola è talmente effervescente e visionaria che talvolta ho temuto ci portasse su sentieri troppo lontani rispetto alla nostra identità. Invece i risultati sono stati molto positivi, tanto che abbiamo deciso di affidarle il progetto delle boutique Panerai nel mondo.

Come è organizzata la vostra rete distributiva?

Abbiamo 38 boutique di proprietà e 29 esterne in collaborazione con dealer Panerai. Siamo presenti nelle più belle strade del mondo. Ci mancano solo via Condotti a Roma e Bond Street a Londra. Il network di retail Panerai è stato notevolmente potenziato negli ultimi quattro anni, con aperture strategiche a livello mondiale. A questo importante sviluppo si aggiunge l’apertura della nuova manifattura a Neuchâtel, in Svizzera, di 10 mila metri quadri, dove si sviluppa tutto il processo creativo tecnico e produttivo.

La parte del design è invece attestata a Milano, dove si trova anche il marketing e la comunicazione, perché io sono fermamente convinto che l’italianità sia un valore fondamentale per il nostro prodotto che al design deve la sua capacità di attrarre e distinguersi. Questo valore deve essere preservato e coltivato in termini culturali, quindi non può essere disgiunto dal territorio italiano.

Da qualche anno Officine Panerai ha deciso di consolidare il suo legame con il mondo del design. A dimostrarlo non è solo la collaborazione con Patricia Urquiola ma anche altre iniziative correlate ai più importanti appuntamenti del settore. Quali sono le più recenti?

Durante le ultime due edizioni del FuoriSalone di Milano abbiamo voluto essere presenti presso lo spazio Rossana Orlandi, la prima volta con un’opera di Nacho Carbonell dedicata al trascorrere del tempo, la seconda con un’installazione che riproduceva l’SLC – Siluro a Lenta Corsa, il cosiddetto ‘maiale’ con cui i valorosi sommozzatori della Marina Militare Italiana compivano le loro imprese subacquee.

L’ultima iniziativa è molto recente e ha coinvolto Yves Béhar, a cui a dicembre, in occasione di Design Miami, abbiamo conferito il Design Miami/Design Visionary Award presented by Officine Panerai. Apprezzo molto questo designer proprio per la sua capacità di guardare al futuro e progettare visioni, più che oggetti, capaci di migliorare la vita quotidiana.

Quali sono le prossime sfide che intende affrontare per lo sviluppo del marchio?

Panerai ha ancora un grande potenziale che a mio parere non è ancora stato totalmente esplorato e sfruttato in relazione all’orologeria di alta gamma. Noi abbiamo ben 20 movimenti di nostra proprietà, che, innovando le forme e i materiali, ci consentono di sviluppare una gamma sempre più importante e diversificata. Questo per quanto riguarda il prodotto. Poi c’è tutto il lavoro sulla distribuzione, che vogliamo rendere sempre più qualificata mediante negozi a insegna Panerai, in modo da garantire la crescita del marchio nel breve e nel lungo periodo.

Una parola chiave di Officine Panerai è innovazione. Può raccontare al pubblico di Interni, che magari non ha un’approfondita conoscenza tecnica dell’orologeria, cosa significa fare oggi innovazione in questo settore?

L’innovazione degli orologi Panerai si sviluppa attraverso i materiali, alcuni elementi particolari del movimento o dei dettagli, che spesso non sono visibili, ma che consentono di migliorare l’insieme estetico o qualitativo del prodotto. L’innovazione, in ogni caso, nasce sempre da un’idea, che viene dapprima trasferita ai designer che elaborano il brief, quindi messa a punto dai tecnici che sviluppano il progetto esecutivo. Si tratta di un processo molto lungo e complesso: basti pensare che un nuovo movimento di orologio, non estremamente complicato, richiede dai tre ai cinque anni di lavoro. Dal movimento dipende infatti la forma della cassa, le sue dimensioni e le sue proporzioni. E solo per la definizione della cassa occorre almeno un anno e mezzo di impegno tecnico e progettuale.

Cosa rappresenta per lei il design?

Il design mi emoziona e al tempo stesso mi rassicura, perché è sempre proiettato verso il futuro. Il design, inoltre, per definizione risponde a delle esigenze concrete, ma all’utilità unisce la bellezza e l’emozionalità. In generale, mi piacciono tutte le cose belle che hanno una dimensione proiettiva. Per me si tratta di una dimensione fondamentale: slegarsi dal passato ma anche dal presente, perché rimanere ancorati all’oggi non permette di guardare in avanti.

intervista di Gilda Bojardi – a cura di Maddalena Padovani