“Per la seconda metà del decennio si preannunciano nuovi successi nella corsa allo sfruttamento del potenziale espressivo dei materiali che costituiscono la sostanza degli oggetti” (“Mater Materia”, Interni n. 545, ottobre 2004): così dieci anni fa Clino Castelli, designer che ama ragionare per decadi, parlava dell’innovazione dei linguaggi plastici oltre la forma, anticipando l’avvento dei nuovi materiali, delle stampanti 3D, dei televisori OLED. Oggi, nella seconda parte di quella riflessione, ci racconta della sua ritrovata passione per la forma, anzi per la non-forma, e di come i materiali siano implicati in questa storia di grandi mutamenti.

Quando il tema dei materiali ha preso più importanza rispetto a quello della forma?
Fin dall’inizio degli anni ’80. Da quel momento la materia (insieme al colore) sarebbe diventata il vero referente dell’esperienza emozionale nei linguaggi del design più avanzato. Il primato della materia sulla forma nasceva dalla consapevolezza che il design avrebbe acquistato nel tempo importanti valori esperienziali. Poiché l’‘esperienza’ è un dato di natura strettamente soggettiva, il colore, i materiali e le finiture (gli elementi emozionali della figurazione CMF) avrebbero assunto grande importanza nelle scelte di design, rispetto al senso di oggettività espresso dalla forma. Fino ad allora i materiali erano scelti solo alla fine del processo di design, tra quelli più adatti alla tecnologia impiegata per un dato prodotto. Da un certo momento in poi, quegli oggetti di design sarebbero stati invece progettati proprio a partire dalla loro identità materica. Questo fenomeno si sarebbe replicato, nella decade successiva, anche nel mondo dell’architettura.

Il tuo lavoro è stato vastissimo ed esteso ai più svariati settori industriali in tutto il mondo, eppure, in realtà, hai disegnato pochissimi oggetti.
Questo è stato l’effetto di operare al di fuori della forma, come ho sempre cercato di fare, cosa che può essere percepita come un non-lavoro. Infatti, non solo nel mondo del design, esiste l’attitudine a creare le carriere personali partecipando di volta in volta alle diverse tendenze storiche in atto. Io, invece, ho sempre aderito ai temi di un’unica visione dominante e dunque, rispetto a quel che ho fatto, sarebbe forse più importante ricercare ciò che non ho fatto. Di recente ho trovato nel termine ‘noform’la sintesi di tutto il mio lavoro, che è consistito nel tentativo di dare un contributo originale all’innovazione dei linguaggi plastici contemporanei, forma compresa. Questo approccio, per quanto mi riguarda, ha portato nel tempo a una sorta di minimalismo super-espressivo evidente per esempio nel mobile Backing del 1991, realizzato da Cappellini, o, più recentemente, nella seduta Lovebench di Louis Vuitton. Due ‘oggetti puzzle’ che sono statement eloquenti delle nuove tecnologie sottrattive e di quelle additive.

Mi chiedo se stiamo parlando solo di design o anche di arte.
Difficile dirlo. All’inizio degli anni Sessanta, al momento delle mie prime scelte, mi confrontavo sia con gli artisti che con i designer, con figure come Pistoletto, Gilardi e Boetti da una parte e principalmente con Ettore Sottsass dall’altra. Ma credo sia stato l’incontro con Dan Flavin, in Europa allora sconosciuto, a dare poi l’imprinting al mio futuro lavoro. Nel 1967 mi trovai ad allestire la sua prima mostra alla Galleria Sperone di Milano rimanendo colpito dalla sua visione dirompente di natura anti-compositiva. Poco dopo Robert Morris, protagonista e teorico della Minimal Art, coniava il termine antiform per definire la nuova possibilità dell’arte di esistere anche in assenza della forma (“L’Antiforma”, Interni n. 543, luglio-agosto 2004). Quei contributi mi avevano già introdotto a una visione del design basata sugli aspetti immateriali, che ancora oggi hanno un ruolo fondamentale nella definizione delle qualità dell’oggetto.

Eppure hai scelto di fare il designer…
Avevo capito, soprattutto grazie a Sottsass, che il design avrebbe raccolto il testimone del rinnovamento plastico, fino a quel momento portato avanti attraverso i linguaggi dell’arte. Nella seconda metà del Novecento gli artisti avrebbero invece privilegiato valori trascendenti come quelli dell’arte concettuale e comportamentale. Al contrario il design, attraverso la cultura del progetto, avrebbe superato gli aspetti della tradizionale composizione figurativa, come la ricerca dell’armonia attraverso le proporzioni, e guardato ad altre qualità intrinseche. In altre parole avrebbe ricercato l’immanenza. Dieci anni fa, proprio su queste pagine, raccontavo come, tra tutti gli elementi connaturati alle cose, la materia fosse la più immanente, in quanto in grado di definire l’oggetto in sé senza dover ricorrere alla seduzione della forma (“Il prodotto immanente”, Interni n. 530, aprile 2003).

Quando nasce l’idea del tuo primo oggetto noform?
Nasce nel 1973 con L’invenzione della superficie neutra, una mostra collettiva di Abet Print mai realizzata ma pubblicata in tutto il mondo. Sul suo catalogo era pubblicato “Antifungus – Logica tecnica delle superfici reattive”, testo in cui riflettevo sulla trasformazione dei tradizionali interruttori tridimensionali in superfici capacitive, sensibili al tocco. Il dispositivo in oggetto diventava un materiale privo di tasti: un caso eloquente di riduzione formale bidimensionale in cui preannunciavo ciò che poi ho realizzato 40 anni dopo, con Smoove di Somfy, il primo interruttore capacitivo a sfioramento, prodotto in grande serie e basato su tecnologia wireless.

Vedi un materiale che sia davvero rappresentativo dei nostri tempi, come lo è stata la plastica?
Verrebbe naturale di citare i LED organici in quanto vere superfici reattive ma, secondo me, oggi il materiale più straordinario è il grafene: una scoperta di 10 anni fa delle nanotecnologie, già premiata con il Nobel. Duro come il diamante ma flessibile come la plastica, il grafene è veramente bidimensionale poiché ha lo spessore di un solo atomo. Credo sia il paradigma ideale perché meglio esprime quella che è riconosciuta come la massima virtù del nostro tempo: la resilienza. Ma questa è già un’altra storia.

 

Di Guido Musante

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Clino T. Castelli, Smoove, Somfy, 2008-2011. Touchscreen domotico wireless, termoplastico capacitivo.
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Clino T. Castelli, Megatextured Furnitures, Cappellini, 1991. CAD-CAM su MDF e legno massello Alpi. Foto M. Piazza.