I 7.700 metri quadrati del Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive sono solo gli ultimi in ordine di tempo progettati da Diller Scofidio + Renfro. Ancora una volta il famoso studio newyorchese stupisce per il suo approccio multidisciplinare, dando vita a un edificio flessibile, multiforme, ‘vivente’, che non si piega alle regole convenzionali dell’architettura tout-court.
A partire dal maxi Art Wall, che occhieggia sulla facciata del museo, proiettando su strada performance d’arte digitale. Da condividere con tutti. Liz Diller, 37 anni di carriera condivisi con il marito Ricardo Scofidio (sono partner dello studio omonimo a cui nel 2014 si è aggiunto Charles Renfro) ci racconta come riesce a far vivere i luoghi e gli spazi che progetta.
Dal 1979 il vostro studio sviluppa progetti in cui l’architettura si sposa con altre discipline: dalle performance teatrali alle installazioni d’arte, dai new media alla danza. Lei ritiene che questa integrazione possa costituire un arricchimento culturale e professionale per un architetto?
Certo: credo che un approccio interdisciplinare possa davvero arricchire la pratica progettuale estendendone metodi e sviluppando nuove strategie. In tutte le discipline, c’è sempre una forma di ricerca, comunque. Ogni mezzo ha i suoi limiti e i suoi gradi di libertà, quindi si tratta di identificare il giusto insieme di strumenti per ciascun progetto.
Nel corso della nostra carriera, ci siamo trovati a operare su piani diversi: da un lato la classica parete del museo, dall’altra il palcoscenico e quindi la performance. Queste esperienze hanno contribuito a dar forma a tutto il nostro lavoro.
Un esempio è “para-site”, una installazione progettata specificamente per il MoMA nel 1989: eravamo stati chiamati come ‘artisti’ ma capimmo subito che dovevamo guardare al progetto con i nostri ‘occhiali’ di architetti.
Si trattava di andare al di là dell’idea tradizionale, quella di appendere opere d’arte alle pareti. E visto che il corpo umano, la sua partecipazione attiva, è centrale nel nostro lavoro, pensammo di rendere possibile sia ai visitatori sia alla tecnologia di scandagliare l’esperienza concreta delle persone all’interno di un museo. Lungo le scale e le vie d’accesso abbiamo installato sette videocamere che catturavano frammenti di immagini dei visitatori e le riproducevano su monitor nello spazio della galleria.
Qui, poi, da un lato abbiamo creato un punto di riferimento dividendo lo spazio con una linea tratteggiata, in modo che i visitatori si potessero orientare. Ma nello stesso tempo li abbiamo anche disorientati, utilizzando specchi sospesi e sedie ‘incollate’ al soffitto o ai muri, che creavano effetti inattesi e sconcertanti.
In questo modo, benché stessimo lavorando a un’opera multimediale, l’installazione venne sviluppata attraverso una precisa struttura architettonica. In modo completamente diverso, e forse meno concettuale, la nostra familiarità con le performing art ci ha aiutato a dare una nuova forma all’Alice Tully Hall del Lincoln Center. Abbiamo rivestito le superfici della sala di una sottilissima impiallacciatura di moabi, un legno africano dalle caratteristiche particolari, in grado di restituire un’acustica perfetta.
Sotto la pellicola di legno abbiamo messo dei led in modo da diffondere una luce calda nella sala e sul palcoscenico. Così, le pareti della hall non si limitano più a fare da sfondo, ma, con le loro caratteristiche luminose e acustiche, diventano esse stesse elementi della performance, come se fossero dei chiari ‘segni’ teatrali.
Lei pensa che questo particolare approccio sia destinato ad acquisire importanza per gli architetti nei prossimi anni?
Sì, sta diventando sempre più rilevante. I progettisti si trovano ad affrontare problemi molto complessi che richiedono creatività e un alto livello di collaborazione con altre discipline. La rapida urbanizzazione, la pervasività di Internet, i cambiamenti climatici, i fondi limitati su cui possono contare le istituzioni culturali, il continuo ampliarsi delle possibilità che la tecnologia offre alle attività artistiche, tutto questo fa sì che gli architetti debbano allargare la loro prospettiva e stabilire collegamenti con una miriade di discipline diverse.
Parlando in modo specifico di danza, in che modo vi siete interessati a questa disciplina e perché?
L’architettura può esprimersi a diverse velocità e con differenti linguaggi. La danza ne è un esempio: il corpo umano, la sua forma e i suoi movimenti, si inseriscono all’interno di un discorso ‘architetturale’. Abbiamo lavorato in molte produzioni di danza, teatro e performance multimediali, e tutte esploravano lo spazio in relazione al tempo, al corpo e alla percezione.
In particolare, abbiamo integrato l’architettura con media audiovisivi per individuare nuovi modi di rappresentare il corpo in movimento e mettere in discussione i criteri spaziali convenzionali del palcoscenico e dello schermo. ‘Moving Target’, per esempio, che è una performance del 1996 nata in collaborazione con il coreografo belga Frédéric Flamand, combinava danza, musica, narrazione e proiezione video.
Abbiamo creato un “interscenium” – uno specchio montato sopra il palco con un’inclinazione di 45 gradi – che visualizzava i movimenti del ballerino sul piano. Invece, ‘Be Your Self’, lo spettacolo che abbiamo allestito in collaborazione con Garry Stewart e l’Australian Dance Theatre, indagava attraverso la danza la relazione tra la nozione che abbiamo dell’ “Io” individuale e i nostri corpi fisici, meccanici. Così abbiamo disegnato una sorta di parete in tessuto bianco dalla quale parti di corpi dei danzatori emergevano e interagivano tra immagini in movimento proiettate.
Exit, la vostra più recente installazione artistica che avete realizzato alla Fondation Cartier a Parigi, si compone di una serie di mappe animate e coinvolgenti: come è nata l’idea di questa performance?
Il progetto è partito da una sollecitazione del filosofo e urbanista Paul Virilio, che era interessato ai problemi politici, economici e ambientali che determinano le migrazioni. Originariamente l’installazione faceva parte di una mostra più ampia, intitolata ‘Native Land’, Stop Eject’ alla Fondazione Cartier (nel 2008, ndr).
Nel novembre dello scorso anno l’abbiamo aggiornata, per presentarla poi a gennaio di quest’anno, in occasione della Climate Change Conference COP 21 delle Nazioni Unite che si è tenuta a Parigi: il mondo di oggi, del 2016, è molto diverso da quello del 2008, l’anno in cui ‘Exit’ fu inaugurata. La popolazione globale conta un miliardo di persone in più, il numero di profughi è aumentato di cinque volte. Abbiamo quindi immesso nuovi dati per riflettere questi drammatici cambiamenti.
Anche questo progetto riflette l’approccio interdisciplinare che caratterizza il vostro lavoro?
Sì, assolutamente. Anche ‘Exit’ ha le sue radici nella ricerca e nella collaborazione. Ci siamo sforzati di presentare i dati e comunicare le informazioni in modo nuovo, senza utilizzare strumenti di narrazione tradizionali, come foto o filmati. Ci siamo invece posti una sfida, quella di usare proprio i dati reali, che spesso sono percepiti come aridi, astratti e difficili da assimilare, ma cercando di esporli in una forma che ne rendesse evidenti il significato e le connessioni, per esempio utilizzando il suono e le animazioni, facendo così ricorso ancora una volta a modalità nuove e soprattutto più efficaci.
Testo di Laura Ragazzola