Designer e grafico giapponese, fondatore nel 1991 dell’Hara Design Institute, art director di Muji dal 2002, vice president della Japan Graphic Designers Association, autore di numerosi libri sul design e curatore di importanti esposizioni, Kenya Hara ha curato, assieme ad Andrea Branzi, la mostra Neo Preistoria – 100 verbi, in programma alla Triennale di Milano fino al 12 settembre.

Un’esposizione che narra la storia dell’umanità, dall’età della pietra a oggi, attraverso 100 verbi rappresentativi dei desideri dell’uomo a cui corrispondono altrettanti oggetti creati dalla mano dell’uomo. A lui abbiamo chiesto una riflessione sulla mostra e, più in generale, sul significato del design al giorno d’oggi.

Una sintetica definizione di Neo Preistoria?
Una composizione poetica in forma solida. La poesia giapponese risponde a regole molto rigide. 100 verbi e 100 oggetti sono le regole all’interno delle quali io e Andrea Branzi abbiamo composto la nostra poesia a quattro mani.

Quale tipo di relazione può esistere tra Kenya Hara e Andrea Branzi, due progettisti e teorici di marcata personalità, appartenenti a culture differenti? La differenza è una ricchezza da preservare, oppure un ponte da traversare?
Il nome e la personalità di Andrea Branzi mi erano noti, come pure la sua attività, ma ho avuto modo di parlargli per la prima volta in occasione del progetto della mostra Neo Preistoria. Quando Andrea Cancellato, direttore generale della Triennale, mi ha proposto di curare una mostra assieme a lui sono rimasto stupito. Ho accettato l’offerta perché ero curioso di capire le ragioni di questa iniziativa.
L’idea dell’esposizione nasce da un desiderio condiviso: disegnare, in questo momento storico, un’immagine del mondo. Proveniamo da culture profondamente diverse e disponiamo di competenze professionali molto specifiche e differenziate, ma l’accordo sul comune proposito ci ha fornito lo spunto per il progetto che abbiamo poi sviluppato.

Nel catalogo della mostra ha scritto: “Con cento verbi e cento strumenti abbiamo cercato di descrivere i desideri dell’umanità”. In un saggio del 2011, intitolato “Educazione del desiderio”, afferma che è possibile educare la qualità dei desideri al fine di influire su quella degli oggetti. Quale può essere il processo?
Credo che il design, piuttosto che un’opera creativa, sia una forma di lavoro capace di stimolare in noi un risveglio, o di stimolare l’attenzione per la vita quotidiana delle persone. Tra i tanti esseri viventi, solo all’uomo è concesso di creare l’ambiente nel quale vivere. Che genere di cultura e intelligenza è necessaria agli uomini per creare il proprio ambiente?
Le città e gli spazi abitati non vengono realizzati sotto la guida di un geniale urbanista o di un leader politico, ma sono il risultato delle vite spontaneamente condotte da moltitudini di individui. La città è un riflesso dei desideri e delle speranze delle persone che ci vivono. Per questo rappresenta il livello medio di esistenza cui ambisce la gente comune.
Sarebbe dunque necessario vedere le cose al di là dei desideri degli uomini comuni e disporsi in un atteggiamento di condivisione ideale con le persone. Questa disposizione alla condivisione potremmo chiamarla ‘educazione del desiderio’.

Scrivendo, nel 2011, che la casa è come un frutto che diventa albero crescendo sul suolo del desiderio, ha stabilito una relazione tra un frutto e l’abitazione. Ogni luogo è speciale e unico e, anche se i fertilizzanti sono i medesimi, gli alberi che vi crescono saranno diversi in accordo con la natura del suolo. L’architettura della casa deve porsi in relazione con la natura in cui si inserisce più che con la vita degli abitanti?
Il rapporto tra la natura del territorio e la vita degli abitanti è molto profondo. Il clima, l’ambiente, la politica, la religione e via dicendo sono fattori che determinano la natura del luogo, ma la cosa più importante è la storia delle persone che lo abitano: come essi vi hanno vissuto e nutrendo quali desideri. In Giappone, durante l’epoca Edo durata quasi 300 anni, la cultura popolare era molto florida, tanto che si poté addirittura concretizzare il sogno di un ciclo energetico a zero emissioni. Credo che questo risultato sia strettamente correlato alla qualità che il territorio aveva acquisito.
Voglio dire che il popolo giapponese, in quel periodo, anziché aspirare alla nobiltà o a possedere cose preziose preferiva trovare la felicità nella semplicità, nella modestia e nel risparmio. Questi sono stati gli ideali che hanno forgiato la cultura popolare dell’epoca. Penso che questo stile di vita possa costituire il punto di partenza per lo sviluppo di ogni città e per costruire un modello di risparmio energetico analogo a quello dei veicoli prodotti dall’industria automobilistica giapponese, caratterizzati da forme compatte.
Il Giappone è un Paese insulare: siamo isolani e conserviamo una mentalità essenzialmente rurale. Come tali tendiamo a non voler assumere responsabilità sulla scena internazionale. Il nostro è un Paese timido, popolato da gente preoccupata del giudizio altrui. I prodotti industriali nati nel nostro Paese sono qualitativamente stabili, di funzionalità discreta, ma non possono esercitare un’influenza a livello mondiale.

Considerando i valori correlati all’età e al livello di maturità, come è possibile accelerare e potenziare quest’ultima?
Non saprei. Ho iniziato a insegnare all’Università nel 2004: gli studenti erano già nativi digitali e ormai sono anche social network nativi, ma vivono nell’ansia del futuro, timorosi di essere fagocitati dal mondo della comunicazione, sottoposto a un’incessante accelerazione. Anche il capitalismo non riesce più a dirigersi alla conquista di nuove frontiere e sembra aver perduto lo smalto di un tempo.
La questione più importante non risiede nell’età anagrafica delle persone, ma nella consapevolezza di quale sia il capitolo che si sta affrontando nella storia dell’umanità. Penso che si stia vivendo la fase finale dell’autunno del capitalismo. Come sempre dal caos nasce qualcosa di nuovo e attraverso la crescita e la maturazione di questa novità inizia il regresso verso l’inverno. La nostra epoca è contraddistinta da questa regressione. Ovviamente, dopo la decrescita si attende una nuova crescita. Questo processo non significa distruzione o declino definitivi. La nostra è una regressione molto lenta, finalizzata a una rinascita.

Quale può essere la relazione tra un’esposizione antropologica come Neo Preistoria con il progetto Architecture for Dogs, un nuovo approccio gioioso alla relazione tra cani e uomini?
Architecture for Dogs è un esempio di ‘architettura per’: in questo caso i destinatari sono i cani, ma i soggetti potrebbero essere infiniti. Ho provato a designare i cani come beneficiari di questo genere di architettura, semplicemente perché chiunque conosce il tema, ma il cane rappresenta la metafora di una tematica molto ampia. Mediante il progetto della mostra Neo Preistoria mi sono reso conto che, a fronte dello sviluppo degli studi sull’intelligenza artificiale, l’umanità si sta avvicinando al capitolo ultimo di un’epoca della storia universale. Probabilmente l’uomo inizia a presagire la morte della propria razza nel momento in cui non è più capace di andare in direzione del nuovo.

Tra i 100 verbi e i 100 strumenti che scandiscono la mostra Neo Preistoria, spiccano alcuni singolari abbinamenti: “aver cura” associato a una vecchia bambola, “lavorare” a una macchina per scrivere Remington n.12, “rischiare” a una macchina per il poker, “affascinare” a un flacone di Chanel n.5, “abbellire” a una borsetta, “commemorare” al Compasso d’oro, “fingere” a due paia di ciglia finte. Una scelta che allude a un’ironica, benevola considerazione delle umane debolezze?
In qualunque modo si voglia considerare questi simboli, essi non vogliono esprimere alcuna ironia. Più ci si avvicina alla contemporaneità, più il senso dei verbi, cioè il contenuto dei desideri, si complica e, al tempo stesso, si indebolisce.

Esiste una relazione tra l’invenzione degli oggetti e lo sviluppo dell’abilità manifatturiera, ma anche della disuguaglianza e delle differenze sociali?
Il capitalismo, generato da una lunga e complessa gestazione, ormai è giunto ai suoi ultimi giorni.
Le ultime frontiere della ricchezza sono scomparse ormai da un po’ di tempo, ma l’economia mondiale, pur preoccupandosi della situazione negativa d’insieme, sta brancolando ancora in cerca di futuro. I mutamenti che intervengono a livello strutturale in un capitalismo privato delle sue frontiere stanno massimizzando le disparità tra chi possiede e chi non possiede.

Può il buon design servire da antidoto alle disparità sociali?
Non può essere un antidoto, ma potrebbe costituire una possibilità utile a stimolare il risveglio di coscienza. “Visualizzare e destarsi” è un mantra che mi ripeto continuamente. Oggi, questo motto potrebbe avere un ruolo di primo piano nella nascita di un nuovo fermento nel mondo del design.

Testo di Cristina Morozzi

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Packaging per Macaron di Pierre Hermé, Parigi, 2014; stampato a mano, è caratterizzato da curve delicate e sinuose. In vendita esclusivamente da Pierre Hermé.
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Un ritratto di Kenya Hara.
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Una veduta della mostra Neo Preistoria - 100 verbi curata da Kenya Hara assieme ad Andrea Branzi per la XXI Triennale di Milano (2 aprile - 12 settembre 2016).
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Sedia Tatamiza in legno curvato, priva di gambe ma dotata di schienale ergonomico. È stata pensata per il pavimento in tatami dello studio di Kenya Hara.
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Vasca da bagno per Lixil, proposta a Milano al Salone del mobile del 2012, con particolare effetto superficiale simile alla schiuma.