Frutto di un concorso internazionale bandito nel 2010 per fornire alla città una nuova ‘isola della cultura’, l’Harbin Opera House è il cuore di un progetto più vasto legato al recupero paesaggistico delle zone umide fluviali e alla creazione di un centro culturale e per convegni.

L’idea di creare dei nuovi poli culturali per le città cinesi in espansione (Harbin, famosa per il festival delle sculture di ghiaccio è oggi l’ottava città a livello demografico del Paese), una volta fornite le infrastrutture di base, è stata una scelta di base della pianificazione governativa a scala nazionale.

Una serie di concorsi e occasioni progettuali, anche nella logica del rapporto pubblico-privato, sono stati attivati in tutta la Cina producendo nuovi teatri, biblioteche e incubatori culturali (vedi il Poly Grand Theatre di Tadao Ando nel Jading District a Shanghai, Interni, settembre 2015).

Tassello quindi di un progetto distribuito per punti e secondo una precisa e lucida strategia a scala nazionale, Harbin Opera House, aggiudicata e progettata allo studio MAD, diventa per l’Harbin del nuovo millennio un nuovo luogo simbolico che celebra la crescita esponenziale dell’urbe con la cultura e la musica, con la riqualificazione dell’ambiente fluviale, con la natura assunta quale elemento per il loisir.

Rispetto però ad altri progetti che, in forma più o meno riuscita, seguono la strada del landmark, dell’edificio monumentale e spettacolare calato come elemento emergente ‘ordinatore’ in realtà urbane molte volte confuse, il teatro dell’Opera di Harbin prosegue quella ricerca compositiva e progettuale portata avanti in molte occasioni da MAD, che tende a confondere l’architettura con il paesaggio, a fare del progetto costruito un’estensione e a volte una metafora del contesto naturale che l’accoglie; senza tuttavia rinunciare alla propria contemporaneità e senza percorrere la strada di facili mimetismi botanico-floreali.

Per questo progetto la topografia della scena fluviale, delle sue anse e delle sue curve naturali, ha suggerito la soluzione d’insieme. I due volumi plastici emergenti si offrono come colline artificiali di diversa altezza contenenti una sala per 1600 spettatori e una più piccola di 400 posti, la cui scena si apre con un’ampia vetrata sull’esterno dando al palcoscenico la possibilità di impiegare una scenografia reale: quella delle stagioni e dei colori dell’anno.

Le due emergenze volumetriche tra loro perpendicolari, e collegate dalla piega ribassata dell’ingresso centrale, formano il fulcro di una grande piazza sopraelevata cinta su lato opposto con un esile segno volumetrico in curva che definisce lo spazio pubblico e la sua dimensione.

Gli accessi veicolari, di servizio e dei visitatori, i parcheggi, sono organizzati nello spazio sottostante raggiungibile a livello pedonale direttamente dalla scala che sbocca dal foro ellittico irregolare posto nei pressi dell’ingresso principale.

L’intero complesso abbandona le tradizionali gerarchie dei fronti principali e secondari, di facciate e copertura, per unire il tutto in un’unica avvolgente superficie. Questa è rivestita con ampie porzioni vetrate, chiamate a catturare la luce zenitale del sole, avvolte da pannelli di alluminio coibentati bianchi che nei lunghi mesi invernali, caratterizzati dal paesaggio innevato, trasformano l’Opera in una vera estensione dell’orografia del luogo, sottolineandone il valore di land-architecture.

Nell’interno, come in una grande caverna modellata dal tempo, ci accoglie nell’ingresso un paesaggio disegnato da altre architetture; quelle delle sale teatrali proposte come alte masse scultoree rivestite da una pelle di frassino della Manciuria, le cui forme organiche, rispondenti a quelle dell’involucro esterno, si ritrovano nelle sale per la musica creando delle eccezionali casse armoniche.

Poco distante è in via di completamento il centro culturale e convegni, con hotel annesso, che segue la stessa filosofia dell’Harbin Opera House, costituendo l’elemento complementare del disegno di un nuovo paesaggio, naturale e architettonico.

Testo di Matteo Vercelloni – Foto di Iwan Baan, Adam Mork e Hufton+Crow