I modelli della metropoli merceologica – come Las Vegas negli anni Cinquanta, il quartiere Ginza di Tokyo negli anni Sessanta, il waterfront di Shangai negli anni Duemila – si sono espansi, sono diventati oggi l’unico vero riferimento metropolitano in circolazione nel mondo, l’unico scenario realistico che rappresenta la mercificazione dell’architettura, della natura, del mare, dei laghi o dei fiumi.

Come nel film The Truman Show (1998) di Peter Weir, tutto è finto, anche la vita.Ugualmente Miami, in Florida, dove le palme, le spiagge e i grattacieli sembrano veri, ma in realtà fanno parte di una fiction più generale, che include anche la California, le isole caraibiche, il Brasile, gli iper-mercati e ogni megalopoli che riproduce se stessa e i propri miti di benessere, superando i limiti dell’identità locale.

Questa è la civiltà merceologica del XXI secolo: un mondo dove la merce viene confezionata, spedita, venduta, acquistata, e circola, come un fluido invasivo, nei mercati globalizzati, mettendo definitivamente in crisi la storia locale e, con essa, la stessa architettura.Il fenomeno delle archi-star non è che l’eroica reazione a questa fagocitazione universale, realizzando eccezioni incommestibili al mercato; eccezioni almeno visive se non possono essere sostanziali o politiche.

I grattacieli e le palme di Miami non sono che le immagini di se stesse; immagini splendide, rassicuranti e potenti, che ci dicono che esiste un mondo fisico la cui immagine può liberamente circolare attraverso i media e che ingloba la stessa natura, che non è altro che la riproduzione di un universo da consumare.

Dentro a questo universo, più mediatico che reale, dentro a questi paesaggi costituiti da una grande narrazione, il vero territorio umano è quello costituito dal sistema molecolare degli spazi interni, dagli oggetti d’arredo, dagli strumenti informatici, dai servizi igienici, dalle postazioni di lavoro. Prodotti industriali di piccola, grande o grandissima serie; ciascuno progettato, funzionale e decorativo.

Durante la Miami Art Week, tutto questo diventa evidente: esiste una metropoli – o, meglio, un’immagine di metropoli – dentro la quale si trova la vera metropoli merceologica, che contiene le funzioni e le relazioni umane; i grattacieli e gli spazi urbani non sono altro che simulazioni di prodotti impilati e imballati, la cui altezza arriva fino al cielo.

In un certo senso, lo scenario metropolitano non è che una estensione cosmica degli scaffali di un iper-mercato. Quello che chiamiamo città non è che un territorio costituito da “un computer ogni 20 mq”, il resto sono fragili crisalidi. Molti vedono questa trasformazione della nostra civiltà come un disastro antropologico che condurrà alla pazzia generale: in realtà, non si tratta che dell’effetto estremo della civiltà industriale, iniziata nel XVIII secolo e salutata come l’avvento di un’epoca dove il progresso tecnico e culturale avrebbero marciato a braccetto.

E, in effetti, hanno cambiato positivamente il mondo e lo hanno trasformato in un mega-sistema laico, che rappresenta soltanto se stesso e insieme il proprio futuro. La metafisica, la teologia, la religione sono diventate capitoli di un racconto di fantascienza, terribilmente reale e pericoloso, che utilizza le tecnologie più avanzate per rappresentare se stesso e spaventare il mondo.

La civiltà merceologica ha la capacità di modificare l’assetto sociale del mondo: milioni di persone si spostano per raggiungere i mercati più ricchi, trasformando i vecchi continenti come l’Europa, con i suoi decrepiti stanziamenti nazionali, in un nuovo insediamento multi-razziale simile all’America, dove la somma delle minoranze etniche produce un effetto creativo e imprenditoriale di grande energia.

di Andrea Branzi

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Andrea Branzi, La metropoli merceologica, Biennale di Venezia 2010.
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Andrea Branzi, La metropoli merceologica, Biennale di Venezia 2010.