L’esigenza di individuare una terza via che superi la dicotomia tra natura e artificio dà vita a oggetti dalla forma razionale ma fluida

La storia del design può essere vista come una moltiplicazione di linguaggi che si intrecciano in vario modo, una marea di fiumi che, scendendo dal periodo delle origini (nella seconda metà dell’Ottocento), attraversa il Novecento fino a giungere al XXI secolo, modellando lungo il percorso ipotesi formali che spaziano dalle più strutturate alle più amorfe. Le architetture di prodotto razionaliste da un lato e i corpi organici dall’altro rappresentano in tal senso gli estremi tra cui si apre il ventaglio delle possibilità di combinazione degli ingredienti di base del progetto, dalla tecnica all’arte, dalla funzione alla forma.

Si individuano così, nella concezione formale dell’oggetto, due ricette fondamentali, di cui tutti gli altri costituiscono gradazioni più o meno accentuate: quella rigida-strutturale, che muove ‘analiticamente’ dalle parti per comporre il tutto, e quella morfologica-organica, che muove ‘sinteticamente’ dal tutto alle parti, scolpendo il corpo oggettuale come una massa cellulare che si specifica gradualmente nella forma stabilita.

Questi due modi di concepire l’oggetto riflettono una dicotomia più profonda, filosofica, tra il mondo artificiale e il mondo naturale, caratterizzati il primo dal controllo razionale sulla realtà, il secondo dall’apertura morfogenetica alla libertà. Si tratta di una contrapposizione che, pur avendo segnato l’intera storia del design, trova oggi non facile collocazione nel nuovo scenario che sta profilando. La questione della sostenibilità rende infatti sempre più evidente come il problema di fondo dell’azione antropica sulla Terra non sia tanto la (pur sacrosanta) salvaguardia della dimensione naturale rispetto a quella artificiale, quanto piuttosto il fatto stesso che nelle nostre azioni, progetti e pensieri il naturale e l’artificiale si trovano su due fronti concepiti come distinti e contrapposti.

Ciò che appare sempre più necessario, dal punto di vista filosofico e, quindi, estetico, è una sintesi virtuosa tra naturale e artificiale, una crescita sinergica tra la carne del mondo e la struttura della civiltà, che tessa naturale e culturale come la trama e l’ordito di uno stesso racconto, quello dello sviluppo della vicenda umana nel nuovo secolo.

La questione della sostenibilità rende infatti sempre più evidente come il problema di fondo dell’azione antropica sulla Terra non sia tanto la salvaguardia della dimensione naturale rispetto a quella artificiale, quanto il fatto che nelle nostre azioni, progetti e pensieri il naturale e l’artificiale si trovano su due fronti concepiti come distinti e contrapposti. "

I primi segni di questo tentativo stanno già comparendo. Si tratta di progetti che nascono da una ricerca sulla struttura di tipo morfologico; progetti, cioè, che definiscono le architetture di prodotto non tramite la controllata distinzione dei componenti ma attraverso l’armonica fusione delle parti. È il caso delle sedute Gilda e Tata di Estudiobola, leggermente più sobria la prima, appena più esplicita nel suo riferimento alla dimensione organica (quasi ossea) la seconda, ma entrambe frutto di un sofisticato lavoro scultoreo che ne ha guidato la composizione senza soffocarla sotto un ferreo controllo top-down bensì concedendo alla morbida spontaneità bottom-up di raccordare le parti con razionale armonia.

Questo approccio ‘ossimorico’ alla curatela estetica del prodotto (nel senso di gestione organica applicata a un’architettura razionale) può portare a risultati di vera e propria poesia spaziale, come nel caso della seduta Velo di Jan Waterston, che esplora l’aerodinamica immaginaria di un flusso plastico sottile e scattante, o della serie Ethereal realizzata da Marc Fish, che si accosta al design con una sensibilità artistica di tipo art nouveau, ma attualissima e contemporanea, mettendo a punto oggetti che sono autentici distillati di coerenza formale. Estremamente interessanti, da questo punto di vista, anche i progetti Hypnos e Marlowe di Roberto Lazzeroni per Ceccotti Collezioni, che fondono addirittura una struttura dal sapore ‘tech’ con la morbidezza organica del legno.

Ancora più ‘spinte’ appaiono poi le sedute Dusty e Wind di Peter Donders, la seconda in particolare immaginata come deformazione estrema di un albero perpetrata dal vento, che ne ha aperto e rimodellato la massa così come il movimento disegnava Forme uniche di continuità nello spazio di Boccioni. Risultato, questo, di tipo organico, che fonde un’estetica arboricola a una sinaptica, a partire dalla loro comune origine biologica.

Si individuano, nella concezione formale dell’oggetto, due ricette fondamentali: quella rigida-strutturale, che muove ‘analiticamente’ dalle parti per comporre il tutto, e quella morfologica-organica, che muove ‘sinteticamente’ dal tutto alle parti."

Che questi percorsi di sintesi tra organico e razionale possano aprire la via a nuovi processi in cui il naturale e l’artificiale trovino una produttiva coesistenza lo dimostrano i casi di crescita guidata dei fusti vegetali affinché assumano la forma di oggetti d’uso. È il caso, tra gli altri, di Full Grown, marchio che produce elementi d’arredo attraverso una vera e propria linea di coltivazione. Si tratta, ancora, di esperienze locali, difficilmente implementabili su larga scala (e comunque già adatte per un ‘design a chilometro zero’).

E tuttavia il valore di questi esperimenti sta proprio nel loro porsi come statement non solo teorici ma anche pratici, in grado di suggerire un possibile cambio di paradigma. Progetti di apertura pensati per farci vedere che, come cantava Leonard Cohen, “c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce”.