Entrambi under 40 e siciliani, Giuseppe Gurrieri e Valentina Giampiccolo sono due giovani talenti dell’architettura italiana, con un background di esperienze internazionali (Stoccolma per Giuseppe e Lisbona per Valentina). Credono nel valore della collaborazione e della complementarietà d’approccio, come dimostrano in questo intervento co-firmato di recupero e ristrutturazione residenziale nel centro storico di Ragusa che si confronta con la memoria del luogo, ma non rinuncia a sviluppare linguaggi e modalità più consone alle esigenze abitative del XXI secolo. Non a caso, hanno vinto nel 2014, per la sezione Architetti, la III edizione del Premio RI.U.SO, bandito dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.
Un bel riconoscimento (tra gli altri ricevuti). Ve lo aspettavate?
Spiega Giuseppe Gurrieri: “Ci ha fatto molto piacere, soprattutto, la motivazione della giuria, per cui la dimensione dell’architettura non si misura nella quantità dei mq, ma nella qualità degli stessi. Si tratta infatti di un progetto, piccolo (la superficie è di circa 400 mq) ma significativo, che riguarda l’abitare in senso stretto; non stiamo parlando di una riconversione”.
Quale è stata la genesi dell’opera?
“Cinque anni fa ci ha chiamato il committente, chiedendoci di mettere mano a un incastro di diverse proprietà che definivano un unico corpo di fabbrica, nel tempo oggetto di rimaneggiamenti dovuti a frazionamenti e suddivisioni, non consentendo più un’ efficace fruibilità. Abbiamo individuato la formula della sottrazione di una porzione dell’edificio, come strategia d’intervento sul costruito: svuotare e ricostruire, recuperando. Non è stata di immediata comprensione: la perdita di spazio per creare una corte interna, presupponeva la rinuncia consapevole ad una quota di volume preesistente che si legava alla percezione di una svalutazione del valore di mercato dell’immobile. All’inizio i committenti hanno pensato a uno scherzo. Ma, illuminati, hanno presto compreso che la rinuncia sarebbe andata a vantaggio di un’ottimizzazione della distribuzione spaziale, dei percorsi sia interni che esterni, della privacy e della luminosità degli ambienti”.
Quali sono stati i punti critici da affrontare?
“Si rapportavano tutti all’affaccio su quote stradali differenti dell’edificio, frutto di una sedimentazione storica del tessuto urbano, che, nell’Ottocento, si è assemblato a fasce, con un tracciato viario longitudinale per parallele che seguono il declivio del terreno e una trama di brevi connessioni trasversali scalinate. L’accesso alla proprietà avveniva dallo stretto vicolo esposto a nord, mentre a sud l’alloggio prospettava sulla strada maggiore dove, nei piani bassi, originariamente venivano svolte le attività casearie per la produzione del caciocavallo”.
È nata in questo quadro I’idea di fare della corte il nuovo ingresso dell’abitazione, grazie a un parziale svuotamento volumetrico ?
“Certamente. L’idea è stata quella di rendere la corte una zona-filtro e di sosta climatica che, grazie alla ventilazione naturale e alla presenza di piante verdi ornamentali, funge da camino e consente il miglioramento delle prestazioni energetiche dell’intera abitazione. Ma, al tempo stesso, la corte è stata concepita come una presenza protagonista, una stanza en plein air su cui affacciano ora tutti gli ambienti. È come se l’edificio si chiudesse in se stesso e ciò ci ha consentito di risolvere anche il problema della privacy e quello della luminosità degli spazi. Abbiamo inserito soltanto l’essenziale, per valorizzare la preesistenza. Le scale sono state riposizionate lungo la parete sul versante a nord, più fredda e umida nei mesi invernali, definendo una fascia intermedia di transito all’interno della scatola abitativa, articolata su tre piani più l’ammezzato”.
Una storia antica che si rinnova, dunque, rileggendo le potenzialità di una tipologia archetipa – la casa-patio (o corte) – come metodologia di approccio?
“È stato un modo per rispettare il concept di un riuso a tutto tondo, che si declina nel riciclo dei materiali originari, ma anche nel recupero di una tipologia edilizia di tradizione mediterranea che ha rappresentato il nostro modello di riferimento privilegiato. Il dialogo tra memoria e innovazione è diventato una reinterpretazione puramente concettuale di spazi forzati da secoli e liberati in dimensioni astratte. Nuove essenziali geometrie di influenza araba si trovano custodite dentro una costruzione antica. In quanto ai materiali e agli elementi architettonici, sono stati rimossi, catalogati e riassemblati in chiave contemporanea. Come le porte interne e le mattonelle in cemento stampato. O le vasche per la salamoia del caciocavallo, ora cisterne d’accumulo di acque meteoriche per gli impianti sanitari e per l’irrigazione delle piante che ornano gli spazi aperti. Unico vezzo decorativo, le ringhiere di recupero in stile liberty, che corredano le leggere passerelle in grigliato metallico di circolazione esterna, sottolineando per netto contrasto il peso della muratura piena dell’edificio. Il vero decoro della casa resta, infatti, nell’essenza la luce che, filtrando attraverso le aperture, genera un gioco di raggi, squarci e ombre che incidono e ridisegnano tutte le superfici architettoniche. L’involucro è rimasto invece inalterato; abbiamo soltanto sostituito gli infissi lignei, ripristinato i prospetti con intonaci a base di calce idraulica naturale e spazzolato le parti lapidee”.
Il luogo suggerisce sempre il tipo di risultato…
”Non dimentichiamoci che siamo in un’area del centro storico di Ragusa oggetto, dagli inizi del Novecento ad oggi, di trasformazioni che si leggono nelle sovrapposizioni, stratificazioni e addizioni degli edifici, che ne definiscono un’identità ibrida, e alla fine risulta affascinante proprio per questo”.
In realtà la casa sembra negarsi alla relazione con il paesaggio circostante…
”Non è proprio così. Stabilisce un dialogo per contrasto linguistico con i volumi confinanti. Nel suo essere un guscio introverso isolato dal vicinato denota una chiusura, un distacco rispetto al contesto, la ricerca di un adeguato regime di privacy da parte degli abitanti. Ma chi vive il quartiere non la percepisce così, perché vi ritrova la traccia di una preesistenza remota originale e autentica”.
Quali sono stati gli elementi architettonici recuperati più rilevanti sul piano delle soluzioni d’insieme?
“L’imponente volta a botte al piano terra – ‘impaginazione’ della sequenza corte d’ingresso, soggiorno, scala organizzata sul fondo – tagliata per consentire l’innesto e la compenetrazione di volumi puri distribuiti su quattro livelli. La stessa sottrazione a favore della corte è un volume puro, un vuoto attivo con una forma ben definita. Sono i paradigmi di una composizione a cubetti tipica delle masserie siciliane riaggiornata. L’ammezzato è diventato uno spazio polifunzionale-laboratorio con bagno dedicato. Il piano superiore (il secondo) accoglie un secondo soggiorno e la cucina, separati da una scatola monocromatica, evidenziata dalla finitura a smalto grigio, che si deve ‘attraversare’ (contiene il blocco dei collegamenti verticali) per passare da un ambiente all’altro. Al terzo, si trova la zona notte”.
Nelle scelte d’arredo, è stato necessario il disegno di pezzi ad hoc?
“È un progetto che ‘mastica’ più il linguaggio dell’architettura che non quello degli interiors. Parole-chiave di ogni scelta sono state sobrietà, materiali e maestrie artigianali. La cucina presenta una parete attrezzata in legno laccato opaco che integra i forni e l’isola centrale con piano in cemento e ante lignee vestite di ferro. Per il resto abbiamo optato per pezzi vintage e di recupero”.
Il colore così importante nella memoria della casa siciliana sembra defilarsi a favore di un’impronta di neutralità degli ambienti?
“Insieme al bianco, abbiamo distillato con cura campionature di intonaco e resine grigie, in un tono RAL sia fuori che dentro casa, colori mono – lievi variazioni tonali, che ravvivano l’effetto di ombra (e luce) con l’intento di sottolineare la tavolozza dei materiali recuperati, come le cementine, o l’energia materica e figurativa della potente volta a botte. Un doppio codice impostato sulla coesistenza di modernità e tradizione. Perché alla fine l’architetto è sempre un sarto su misura”.
Foto di Filippo Poli
Testo di Antonella Boisi