foto di Max Rommel
testo di Antonella Boisi
“Mi occupo di progetto, ma alla scala dell’oggetto e non ho la velleità di disegnare lo spazio, però non mi sarei mai riconosciuto nell’immagine di un’abitazione stucchevole”.
Se lo dice Giulio Iacchetti possiamo crederci. Sguardo limpido e approccio poco artefatto, cremonese, classe 1966, si è proposto dagli inizi come un industrial designer non banale, osservando innanzitutto le piccole cose che ci circondano con l’intento di migliorarle. Il progettista per l’industria, nella filosofia iacchettiana, dovrebbe in primis pensare oggetti con un quid d’innovazione destinabili al maggior numero di persone. Come dimenticare la Moscardino, una posata multiuso biodegradabile disegnata insieme a Matteo Ragni, Compasso d’Oro 2001, ed oggi parte dell’esposizione permanente del design al MOMA di New York? È rimasto coerente alla sua prospettiva anche se nel tempo sono arrivati altri incontri, la consacrazione nell’Olimpo dei designer, i lavori felici per Caimi Brevetti, Coop, Guzzini, Casamania, Foscarini e così via. La sua casa condivisa con la moglie Silvia, anche lei attiva nel mondo del design, e il loro piccolissimo Tito, attualmente in fase di scoperta del mondo, non può che restituire un racconto autobiografico fuori da schemi precostituiti, intelligente e ironico. Il luogo, in cui abitano da circa sei mesi, ha una certa magia che è stata preservata: “Siamo in città, ma sembra di stare in campagna” racconta. Un piano terra molto luminoso, tutto bianco e legno, denso di presenze e di significati, dal sapore quasi nordico se non fosse per il contesto. Quello della tipica casa di ringhiera milanese primi Novecento, integrata in una zona non ancora conquistata dalla speculazione e ben tenuta nello stato originario, strutturata intorno alla classica corte a U che funge da elemento ordinatore delle parti. Sul fondo, dove in passato c’erano gli spazi di un’officina di carpenteria metallica, il mondo di Iacchetti possiede l’ulteriore pregio dell’indipendenza. “Prima ho acquistato il volume dedicato allo studio, in seguito ho avuto la fortuna di trovare confinante il corpo che è stato destinato alla casa, due episodi conclusi e distinti, ma comunicanti proprio attraverso l’unità del cortile. E la dimensione di continuità tra casa e bottega, senza commistione di ambiti, soprattutto per chi viaggia spesso, è davvero una comodità”. Sul retro della casa,il cortile privato diventa addirittura giardino, chiudendosi intorno al nuovo pergolato dove si è arrampicata la rigogliosa vite autoctona e si è ricomposto tra zone a verde e di sosta con le vecchie traversine bonificate della ferrovia che resta a vista sul terreno sovrastante. L’intervento di recupero, ristrutturazione e riconversione del preesistente è opera dell’architetto Silvia Monaco. “Lo considero un lavoro riuscito” spiega “anche in virtù del percorso di conoscenza, stima e amicizia maturato con i committenti. Mi hanno chiesto di disegnare una casa a loro misura e, semplificando la mia proposta iniziale, abbiamo condiviso l’idea di un contenitore neutro, senza impronte troppo definite, un progetto aperto, capace di contenere più storie e di evolversi con loro”. Le potenzialità dello spazio, le generose aperture e le altezze dei soffitti oltre i quattro metri, hanno suggerito le scelte compositive. “La complessità maggiore” ricorda l’architetto “è stata calibrare, rispetto all’altezza dei volumi, la partizione e la proporzione degli spazi in pianta. La trasformazione ha poi voluto conservare qualche traccia del genius-loci. Sono state ad esempio lasciate a vista le strutture a voltine in mattoni che coronavano i soffitti, ripulite, intonacate e dipinte di bianco. Lo stesso trattamento è stato riservato alle travi preesistenti. Sono state recuperate anche le aperture. Quelle verso il cortile interno hanno mantenuto gli infissi originali in ferro. A questi ne sono stati però affiancati dei nuovi in acciaio che montano all’interno una vetrocamera con quadrettatura più ampia”. Nel fronte che guarda verso il giardino e la ferrovia, invece, le aperture sono rimaste nella posizione originale, ma prolungate a tutta altezza con infissi a filo grigi, in modo da amplificare la luminosità degli ambienti. Alla percezione fluida e solare dell’insieme contribuisce il bianco puro dell’involucro dilatato dalla tonalità del pavimento uniformemente realizzato con larghe doghe di rovere finito ad olio pigmentato. Il disegno ha infatti privilegiato la ricerca di una spazialità aperta e continua. La zona giorno riunisce in un unicum ininterrotto soggiorno, pranzo e cucina quest’ultima corredata di un’area servizio-lavanderia ricavata nel vano di un corpo sporgente sul cortile. Più articolata la zona notte ha organizzato lo sviluppo di due camere e bagno dedicato lungo il corridoio di disimpegno che, direttamente comunicante con l’ingresso e attrezzato lungo la parete piena con un’armadiatura su misura rivestita di sofisticata carta da parati, si propone come asse visivo ed elemento ordinatore della composizione.