Per capire meglio cosa stia accadendo oggi sulla scena del design messicano è utile fare un salto indietro di quasi dieci anni. Nell’annata 2008-2009, infatti, due progetti legati al Messico conquistano l’attenzione delle cronache internazionali.
Il primo è un tappeto disegnato da un gruppo di designer messicani per il marchio spagnolo Nanimarquina. Si chiamano NEL Colectivo e sono Ricardo Casas, Cecilia León de la Barra, Héctor Esrawe, Alejandro Castro ed Emiliano Godoy. Il tappeto mostra un linguaggio assolutamente internazionale, quasi concettuale nella forma e nel contenuto: un’isola bianca su fondo blu dal quale si staglia un piccolo, inerme orso polare, quale riferimento al riscaldamento del globo terrestre.
Il secondo progetto riguarda una ricerca condotta da Hella Jongerius che, grazie all’associazione The Nature Conservacy insieme al Cooper-Hewitt Museum di New York, approda in Messico per riscoprire un materiale antico, il lattice naturale derivato dagli alberi nella foresta pluviale. Il risultato sarà la collezione Chicle, vasi in terracotta che dialogheranno con la gomma americana secondo una visione a dir poco inedita.
I due progetti evidenziano strade ben delineate: la tensione verso il mondo e il mercato internazionale da parte dei designer messicani e, allo stesso tempo, la riscoperta da parte dei designer europei di tecniche, materiali, processi artigianali che li portano nei Paesi più ricchi di questo genere di tradizioni, quale è il Messico.
Da lì a pochi anni moltissimi talenti messicani verranno a studiare in Europa e scopriranno quanto il design di piccola serie possa arricchirsi dal confronto con la tradizione artigianale antica, tornando così in patria ricchi di nuove prospettive. Al tempo stesso, molti di loro continueranno a tendere all’internazionalità del mercato seriale di media e grande scala.
Non a caso, proprio due dei rappresentanti di NEL Colectivo, Alejandro Castro ed Emiliano Godoy, avevano già fondato nel 2007 il marchio Pirwi, una delle realtà seriali più forti nel loro Paese e con una buona risonanza all’estero.
Il loro modo di concepire il design, così come quello di Héctor Esrawe, il ‘senior’ del gruppo, è molto vicino a quello di tanti loro colleghi europei, orientali, statunitensi. E il tratto di messicanità nei loro prodotti è rinvenibile nei materiali e nelle manifatture, ma molto meno nell’aspetto prevalentemente omogeneo alla produzione globale.
Sul fronte della riscoperta delle radici artigianali i casi più interessanti oggi sono quelli in cui designer e artigiani si incontrano e danno vita non solo a prodotti, ma anche a vere e proprie forme commerciali inedite per le realtà locali, con la complicità, ovviamente, del web. Le loro storie sono quelle di un vero scambio ad armi pari: innovazione per tradizione, sperimentazione contemporanea al servizio della tecnica antica, visione nuova su materiale secolare.
È quanto è accaduto, per esempio, a Liliana Ovalle che nel 2015 collabora con Colectivo 1050°, una piattaforma che commercializza e tutela la millenaria ceramica di Oaxaca, sulla base del lavoro di Innovando la tradición, una rete di artigiani e progettisti fondata da Kythzia Barrera, designer diplomata a Eindhoven. La Ovalle, designer messicana con base a Londra, viene messa così in contatto con il gruppo delle Mujeres del Barro Rojo, un’incredibile comunità di artigiane che lavorano insieme, legate per parentela e per conoscenza delle tecniche ceramiche.
Il risultato è la serie di vasi e piatti Open Fires, dove il bicromatismo rosso e nero è ottenuto con una seconda operazione di bruciatura della ceramica rossa. Liliana lavora innestando la sua cultura di progettista contemporanea, abituata alle misure esatte, sull’imprevedibilità delle loro tecniche.
“Queste donne”, spiega, “non lavorano con i centimetri o i disegni tecnici, quindi le loro domande vertevano più sulla quantità d’acqua necessaria per la realizzazione dei pezzi, per esempio. Si tratta di un approccio completamente diverso da quello al quale sono abituata, ma molte delle nostre conversazioni avvenivano via Whatsapp. Non usavamo i centimetri, ma parlavamo con Whatsapp!”.
La tensione tra icona locale e risonanza internazionale, tra passato e presente si evidenzia, per altri versi, anche nel progetto di Moises Hernandez, designer di origini messicane diplomato all’ECAL di Losanna, che reinterpreta per Voit una delle glorie nazionali nell’immaginario collettivo: il pallone da calcio.
Si ispira alle maschere del folklore, invece, la diplomata alla Central Saint Martins Ana Jimenez con Los Enmascarados, autrice di mobili antropomorfi, animisti, magici e colorati, ma pieni di mistero come le favole e le leggende.
Anche il gruppo Ad Hoc, fondato nel 2014 dal designer Juan José Nemer e l’architetto Mauricio Alvarez, sceglie la via dell’innesto antico-moderno grazie alla padronanza delle tecniche e dei dettagli. Una prova lampante è la sua produzione di ebanisteria, dove spesso le gambe si torniscono con citazioni del passato che suonano come perle preziose, come nei tavoli Antelmo. O, ancora più evidente, nell’uso della tecnica del Papel Picado, l’intarsio di carta per i decori delle festività popolari, utilizzata per impreziosire la superficie del contenitore Huixcolotla.
Fernando Laposse, altro messicano diplomato alla Central Saint Martins, ha di recente realizzato per Selfridge a Londra un’installazione che gioca sulla rivisitazione di un materiale e di una tecnica artigianale, quella dei Cachetadas, i lecca lecca di zucchero realizzati per le feste. I layer che compongono l’installazione funzionano con incredibile efficacia nella ricerca sulle sovrapposizioni cromatiche, conquistando risultati che poi l’autore riporta nella lavorazione del vetro.
Ma Messico risuona nel nostro immaginario anche per la tradizione tessile, una delle più antiche e celebri del mondo. E qui il racconto si tinge un po’ anche di tricolore. Maddalena Forcella dall’Italia si trasferisce in Messico per studiare per vent’anni tecniche tessili indigene e segreti delle tinture vegetali.
Un lavoro carpito stando a stretto contatto, in Chiapas e a Oaxaca, con le comunità artigianali femminili che si tramandano con mani e voce la propria arte da sempre. Questa collaborazione genera oggi fibre cangianti che mutano con il raccolto e le stagioni perché derivano in tutto e per tutto dalle piante e dalla lana naturale.
Ne risultano tappeti che ricordano le onde del mare o i cieli in tempesta, dove la mutevolezza della materia prima è quella della vita. Un colore così diverso da quello industriale, al quale siamo ormai assuefatti, e così difficile da accettare nella sua variabilità, se il mercato chiede certezze plastificate.
Un universo cromatico che, se solo imparassimo a riconoscere, rivelerebbe la propria lunga storia, partendo da lontano, nel tempo e nello spazio, per arrivare dritta ai nostri sensi assopiti. Perché, con ogni evidenza, bisogna andare o venire da molto lontano per riconoscere il valore di quello che abbiamo più vicino.
Testo di Domitilla Dardi