Fredrikson Stallard, svedese il primo, Patrik, e britannico il secondo, Ian: il Financial Times li ha consacrati tra i 10 top designer del decennio; Driade gli ha affidato nel 2014 il disegno dell’allestimento dello stand al Salone del Mobile di Milano che ha segnato il nuovo corso del ‘Laboratorio estetico’ acquisito da ItalianCreationGroup.
Quest’anno sono stati protagonisti, sempre al Salone e sempre con Driade, del progetto di una nuova collezione di mobili da esterno che “non vediamo l’ora”, dichiarano, “di ambientare sulla nostra terrazza” e della personale Gravity alla David Gill Gallery di Londra – diventata loro città di adozione.
Così da Milano a Londra, andata e ritorno, siamo andati a scoprire nella nuova casa-studio di Holborn, concessa in esclusiva a Interni, come prendono vita questi oggetti non convenzionali, di vena artistica, che vivono di materia e solidità fatte per durare e appassionare.
Un grande spazio effetto loft, denso, of course, espressione di due personalità e di un progetto condiviso che combina logica industriale e manifattura artigianale, e influenze dell’espressionismo astratto. In continua trasformazione come è la vita, ma radicato nella storia e nella tradizione di un contesto urbano molto amato.
“Quello di Holborn, che ha sempre giocato un ruolo importante”, riconoscono. “In questa zona abbiamo frequentato il Central Saint Martins College of Art e abbiamo trovato il primo studio e la prima abitazione. Ideale nella posizione, centrale, a metà strada tra i quartieri west end di Soho, Mayfair e Covent Garden e le aree più artistiche di Clerkenwell e Shoreditch a est.
Ha affascinato personaggi del calibro di Charles Dickens che abitava nella vicina Bloomsbury e che l’ha eletta a nascondiglio di Fagin nel celebre romanzo Oliver Twist quando, nei secoli XVII e XVIII, era assimilabile a un centro del vizio; il suo percorso travagliato l’ha poi voluta dimora della London’s Little Italy nei secoli XIX e XX e quei ponti in ferro sul River Fleet che l’attraversano (e ne hanno traghettato l’interconnessione con i nostri tempi) evocano atmosfere newyorkesi da Meatpacking district; dove aveva debuttato Fredrikson Stallard – l’abbiamo sentita quasi una seconda casa.
Così siamo restati qui. Ma ci siamo trasferiti dal vecchio warehouse recuperato e ristrutturato, che era monoplanare, a questo più ampio e sviluppato su due livelli, che ci ha consentito di dividere meglio lo spazio tra l’abitazione al primo piano e lo studio al pianterreno.
Quando l’abbiamo visto la prima volta, in realtà, era poco più di un magazzino, con l’atmosfera di una cantina: un open space ruvido, privo di finestre e di luce naturale. È stato durante una seconda visita, la mattina seguente, che ne abbiamo percepito dall’esterno le potenzialità: le finestre erano state murate, e nascosto, sul retro, c’era un cortile coperto di vegetazione incolta da decenni, mentre in una zona del piano superiore avremmo potuto creare la terrazza. Le nostre perplessità sono subito svanite”.
Quali sono state le scelte più rilevanti sul piano progettuale?
“Portare luce naturale dentro allo spazio, aprendo le vecchie finestre, innanzitutto. Rinforzate le parti strutturali, sono ritornati in vita gli infissi in ghisa di epoca vittoriana, uno adattato a porta-finestra verso la terrazza, al piano superiore. Poi c’è stata quella più creativa di articolare la composizione spaziale in tre zone principali – il tunnel, la galleria, l’appartamento privato – ciascuna caratterizzata da un mood specifico enfatizzato dalle luci (perlopiù alogene) adottate, a gradazioni luminose mutevoli. Il nuovo layout doveva infatti restituire una cornice contemporanea adeguata a mettere in scena i nostri lavori, i prototipi, i pezzi di una personale collezione d’arte, ma era altrettanto importante che l’architettura originale fosse trattata con un approccio olistico, integrandone e rendendone riconoscibili i caratteri salienti”.
Il tunnel rappresenta lo spazio d’ingresso: pesanti portali in ghisa del XIX secolo lo separano dalla strada, muri di mattoni a vista e pavimenti di acciottolato, ne sottolineano il dna crudo, scarno e quasi drammatico negli effetti di penombra. Da questo primo palcoscenico si accede a un secondo spazio espositivo per contrasto pensato come un fondale neutrale, foderato di pareti bianche e soffitti a doppia altezza, pavimenti in cemento lucidato, illuminazione sofisticata e dettagli architettonici minimali.
L’assonanza-dissonanza tra vecchio e nuovo rivive tra l’ufficio di progettazione principale, organizzato nella parte posteriore, reso luminoso da lucernari ed enormi porte-finestre che si aprono sul cortile esterno e quest’ultimo, oasi di relax disegnata da tappezzerie di muschi, edere e tavolozze verdi che incontrano l’innesto con l’estetica contemporanea del giardino alla giapponese. Il laboratorio, dimora di prototipi e ricerche in progress, correlato all’ufficio e alla galleria, ma anche celato a occhi indiscreti, è l’ultimo spazio che definisce il piano terreno.
Al piano superiore, si sviluppa l’abitazione: luogo dall’atmosfera molto più intima, nonostante l’apertura e la continuità spaziale, monocromatico, pavimenti in legno nero brunito e immancabili pareti bianche. Qui i lavori di Fredrikson Stallard assumono un’allure familiare, accompagnando le diverse attività quotidiane, dall’intrattenere al cucinare, dal leggere al rilassarsi, in compagnia dell’arte e delle chiome argentate degli alberi di betulla che abbracciano la terrazza-belvedere sul cortile sottostante”.
Quali materiali avete utilizzato per sottolineare ciò che è nuovo, come e perché?
“Acciaio, cemento e legno soprattutto. Lasciati al naturale perché possano invecchiare bene, in modo onesto e autentico, con le loro ruggini, macchie, patine cromatiche, nel corso del tempo. L’unica cosa che rinfreschiamo è la vernice bianca sulle pareti, ogni due anni”.
Dopo 60 anni di storia del design che ha arricchito il nostro panorama di oggetti di tutti i tipi, è ancora necessario progettare nuovi prodotti, secondo voi?
“Certamente, perché molto di quello che vediamo è un nonsense, risultato di input prescrittivi che escono da sale riunioni dove i manager parlano di quello che credono il mercato “desideri”; invece di lasciar fare a progettisti e artisti ciò che realmente sentono, rendono fisico e materico. E avrebbe più probabilità di diventare un buon prodotto”.
Ritenete la sostenibilità una priorità nel progetto?
“Senza dubbio. L’errore è quello di ricondurre questo parametro soltanto all’utilizzo di materiali riciclabili o biodegradabili. Come puoi assimilarla a qualcosa che è fatto di plastica riciclata, se questo finisce in discarica dopo tre settimane di vita? Sostenibile per noi è uno sguardo a lungo termine – sono le cose favolose che la gente vuole possedere, conservare, curare, riparare, tramandare ai figli”.
Foto di Ed Reeve – Testo di Antonella Boisi