Hanno scelto l’acronimo MAD Architects per firmare i loro lavori, dalle torri residenziali di Toronto al padiglione itinerante per Vertu, dal vassoio The floating earth in acciaio inox e mogano per Alessi (un prototipo) al Conrad Hotel di Beijing (in via di realizzazione).

Ma, l’approccio visionario, scenografico, ironico e internazionale che caratterizza l’opera del giovane studio cinese è intimamente connesso ad un’idea pragmatica delle potenzialità demiurgiche dell’architettura nella trasformazione e modificazione dell’intorno. Non disattende le aspettative anche il recente Ordos Museum in Mongolia, un progetto iniziato nel 2005 per volontà della municipalità di Ordos, a testimonianza della crescita economica della città e dell’intera regione e concluso qualche mese fa. Un building che supera il valore del manufatto architettonico per focalizzare le prospettive di un quadro più ampio. Lo ‘scrigno’ alto 40 metri e ampio 41.227 mq vestito di una texture di doghe in metallo brunito, che raccoglie le tradizioni locali e la storia culturale della Mongolia, valori e ricordi di un popolo, è molto di più infatti che il bronzeo contenitore espositivo amorfo, un tutto pieno interrotto da piccole bucature verso l’esterno, dichiaratamente ispirato “alla Manhattan Dome di Buckminster Fuller”. Nell’impegnativa terra di Gengis Khan, fino a poco tempo fa perlopiù deserto, Gobi Desert, quindi tabula rasa, ma, dal 2004, oggetto di un masterplan, battezzato The Ever Rising Sun on the Grassland, rigorosamente impostato su matrici ortogonali, l’Ordos Museum si propone infatti con la forza di un autentico landmark, in grado di imprimere alla sua monolitica figura scultorea il ruolo di catalizzatore e di vettore propulsivo della nuova città di fondazione della Mongolia interna. “È stato concepito proprio come una reazione al city plan” spiega Ma Yansong fondatore di MAD, “non è una macchina estetica e neppure il modello per una vertical city, piuttosto una presenza inaspettata e destabilizzante, dentro quel centro città con cui si relaziona per contraltare: restituisce nella sua fisicità organica, che rieccheggia una distesa di dune modellata dal vento, proprio la nostra interpretazione simbolica del sole che sorge sempre sulla prateria, configurando il nucleo di una piazza centrale che consentirà alla cultura locale di incontrare la visione della città del futuro”. Certo, si tratta di un segno decontestualizzato rispetto al luogo in cui sembra calato per caso, come è stato già osservato, e portatore di una dimensione fuori scala in rapporto alla figura umana, ma proprio per questo ancora più denso di valori. Perché raccoglie la sfida della ricerca di una nuova naturalità contemporanea, risvegliando nei fruitori il piacere di “restare in contatto con il sole e il vento, con nuove luci e nuovi colori”. La esprime bene la composizione degli interni, che si propongono come un prolungamento dello spazio esterno originario, sotto la protettiva copertura-cupola alla Buckminster Fuller. Un ampio taglio vetrato effonde luce zenitale negli ambienti, mentre una serie di louvers in metallo lucido fungono da schermatura e altresì consentono la ventilazione naturale delle sale espositive, coadiuvando una politica di risparmio energetico supportata dall’installazione di pannelli solari sul building. La zona d’ingresso-lobby è il ‘biglietto da visita’ della complessa regia d’insieme: una sinuosa promenade che connette gli ambienti espositivi, l’auditorium-spazio eventi e gli uffici all’interno di una costruzione fluida definita da pareti curvilinee continue, che ruotano di vari gradi sui differenti livelli con ondulazioni avvolgenti, talvolta interrotte da bucature che sembrano frutto di deformazioni naturali. Non ci sono spigoli ortogonali canonici ad accentuare le altezze, ma si percepisce forte il ritmo serrato di rampe e passerelle aeree che contengono anche le scale e che consentono ai visitatori sguardi e prospettive percettive mutevoli, trovando il loro coronamento nei nuovi belvedere panoramici sulla città di Ordos.