Il successo del documentario “Il senso della bellezza” di Valerio Jalongo, che racconta il sentimento ‘estetico’ dei fisici del CERN di fronte alle leggi fondamentali della natura, mostra come l’anelito alla bellezza non sia prerogativa dell’arte ma accomuni tutti gli sforzi umani di interpretazione della realtà.
Non a caso, sono gli stessi scienziati a definire l’LHC (l’acceleratore di particelle lungo 27 km) una grande macchina per la bellezza, concepita per indagare il senso delle cose e non per espletare una qualche funzione pratica. Infatti, come la materia può darsi solo nella forma, e la forma solo se supportata dalla materia (lo notava già Aristotele), così le leggi della fisica possono essere intraviste solo se applicate alla realtà.
È per questo che nell’LHC le particelle vengono accelerate a velocità prossime a quelle della luce, ricostruendo le condizioni della materia-energia pochi istanti dopo il big bang. Solo così è possibile intravedere, mentre si nascondono, le leggi fondamentali dell’universo. Ed è proprio questa evanescenza a costituire la ‘bellezza’.
Il fremito della forma che si rivela nella materia che la cela, e che – dato che ogni cosa ha avuto origine nel big bang – si trova ovunque, nelle stelle più lontane come nell’oggetto più vicino: purché la si sappia sondare, accogliere, aspettare. Perché è questo l’unico modo di rapportarsi alla bellezza: non percependola, ma aspettandola. Rispettandone il darsi che consiste nel negarsi.
Immettere nella forma dell’oggetto questo sentimento di attesa vuol dire allora catalizzare il senso ultimo, e primo, della bellezza. Ed è ciò che accomuna il lavoro dei cinque designer italiani nominati al Rising Talent Awards di Maison & Object 2018 (con Kensaku Oshiro come unico designer non italiano, che tuttavia vive e lavora a Milano).
Antonio Facco, Guglielmo Poletti, Marco Lavit Nicora, Federica Biasi e Federico Peri sono oggi tra gli eredi più freschi di quella scuola artistica e progettuale che ha saputo fare della fisica metafisica, e dell’oggetto d’uso esperienza estetica, come nelle Piazze d’Italia di un De Chirico o nella lampada Atollo di un Zanuso.
Lo si vede nella lucidità poetica con cui Federica Biasi ha ridefinito il catalogo di Mingardo, o nella rarefatta esattezza con cui Guglielmo Poletti (di base a Eindhoven) ha disegnato la panca Equilibrium. In questi oggetti vive l’eco della tradizione rinascimentale, quando Piero della Francesca dava ordine all’eterogeneità materica del mondo catturandola all’interno di strutture geometriche terse e cristalline, vere e proprie ‘macchine mentali’ concepite (come l’LHC) per mettere in luce la trama invisibile che dà senso alla realtà.
Leggermente più prosaico, ma anche lui allineato in questa direzione, è Marco Lavit Nicora, di formazione architetto e professionalmente attivo a Parigi, che ha imparato da Riccardo Blumer (lo scienziato sperimentale del design italiano) a capire e rispettare la necessità strutturale dell’oggetto, come esemplificato dal tavolo Reconvexo per la galleria Nilufar, “sintesi di forze e tensioni tra materiali di natura e resistenza diverse, tenuti infine insieme dalla solida trasparenza del piano in cristallo”.
L’approccio poetico alla forma e quello prosaico alla struttura ben convivono nei lavori di Antonio Facco, come la lampada a sospensione Mondo per Oblure e le Unreal Perspectives disegnate per lo showroom Cappellini, e in quelli di Federico Peri, come il tavolino Anello e le lampade a sospensione Shapes (nominate per il German Design Award 2017).
Sono questi specchi, panche, tavoli, lampade, a farsi oggi custodi del mistero metafisico delle cose, portando avanti con precisione filologica il senso della bellezza del design italiano. Non per ripeterlo uguale a se stesso ma per immetterlo nel difficile scenario contemporaneo, evoluzione tanto più necessaria quanto più il risveglio digitale degli oggetti (che hanno imparato a parlare, sentire, pensare) sembra averne secolarizzato l’antico incanto esistenziale.
E tuttavia, al di sotto del brusio data-driven degli oggetti ‘intelligenti’ – che sollecitano di continuo l’utente ad interagire in modo compulsivo e alienante – quell’incanto è tuttora intatto, perché radicato nell’esistenza stessa delle cose. Altro carattere, altra caratura hanno allora questi elementi d’arredo ‘metafisici’, solenni nella loro leggerezza e capaci di aspettare con sovrumana pazienza che la bellezza si manifesti nella fuggevolezza dell’eternità.
È questa, infine, la grande lezione del design italiano. Questa capacità di concepire l’oggetto non come mero strumento di servizio ma come tentativo di risposta estetica (ché sarebbe impossibile, qui, usare le parole) alla domanda esistenziale per eccellenza: perché si dà l’essere e non piuttosto il nulla?
di Stefano Caggiano