Foto di Leonardo Finotti
Testo di Laura Ragazzola
Dalle mura seicentesche della bellissima città di Evora, una sorta di ‘museo-urbano’ che l’Unesco ha proclamato patrimonio dell’umanità, balza subito all’occhio l’architettura dell’antica fabbrica Leõe (prima mulino poi pastificio) per le sue generose dimensioni, che s’impongono bruscamente sull’area pianeggiante intorno alle antiche fortificazioni.
“Che fare di lei?” si è più volte chiesto il Comune di Evora, quando l’attività cessò alla fine degli anni Settanta. Presenza ingombrante del territorio, ma contemporaneamente testimonianza preziosa della storia cittadina, la fabbrica nata nel 1916 come maxi deposito per la farina e la sua lavorazione, ha trovato nuova vita alla fine del 2010: dopo decenni di abbandono i suoi spazi di lavoro sono stati, infatti, trasformati in luoghi per l’insegnamento.
Complice un bando di concorso vinto (anzi stravinto) dallo studio dell’architetto portoghese Ines Lobo, balzata recentemente sulla scena del progetto internazionale quale vincitrice dell’ArcVision Prize — Women and Architecture 2014, l’importante riconoscimento voluto da Italcementi Group per premiare l’eccellenza architettonica al femminile. Ma Ines Lobo nel suo Paese vanta già una storia professionale importante, soprattutto nell’ambito dell’edilizia scolastica.
“Vincevo tutti i bandi di concorso” ci rivela divertita la progettista che abbiamo incontrato in occasione della sua premiazione presso il Centro di Ricerca e di Innovazione di Italcementi Group a Bergamo, lo scorso aprile. “Sin dall’inizio della mia attività — ho aperto il mio studio a Lisbona alla fine degli anni 2000 — mi sono concentrata sugli spazi pubblici. Nel giro di pochi anni l’attività è aumentata (e con essa anche i collaboratori) grazie soprattutto alla partecipazione ai concorsi promossi dal Governo portoghese per la riqualificazione degli edifici scolastici. Ce ne siamo subito aggiudicati quattro: eravamo chiamati a reinventare la scuola del futuro. Come? Recuperando spazi, storia, memoria, partendo da quello che esisteva già. In altri termini, il nostro slogan era (ed è): il passato si proietta nel futuro per riutilizzare senza disperdere, aggiungere senza sprecare”.
Proprio come è successo recentemente nel progetto della Facoltà di Arti e di Architettura di Evora che, per dirla con le parole della progettista “si è adattata alla fabbrica esistente e non viceversa”. Chiarisce la Lobo: “Abbiamo voluto riutilizzare gli spazi già presenti, un patrimonio pieno di storia e di bellezza, perché penso che il progetto sia continuità, e cioè comporti un processo di rifacimento degli stessi elementi. Ma lì, fra i possenti muri di quello stabilimento, mancava da molto tempo la vita: noi l’abbiamo riportata con i nuovi laboratori, le aule, la mensa, gli studenti, i professori… Perché l’architettura è un contenitore di vita e di persone: è questo il suo miracolo”.
Il disegno vincente del progetto è stato quello di interpretare, con uno sguardo diverso, la ricchezza e la complessità del luogo e del costruito, lavorando per sottrazione, prima, e per addizione, dopo. Per prima cosa, infatti, gli edifici annessi nel corso degli anni, volumi caratterizzati da un’architettura povera che ignorava la vera natura dello stabilimento, sono stati rimossi. “Il fatto è che siamo andati controtendenza rispetto alle indicazioni del bando”, precisa a questo riguardo la Lobo, “che prevedeva il riuso di tutti i volumi, anche quelli aggiunti (ben quattro) durante la fase di crescita dell’attività produttiva della fabbrica. Noi abbiamo deciso di rinunciarvi, con un risparmio economico tra l’altro notevole, proponendo invece il recupero completo del corpo più antico del pastificio: il cuore della vecchia fabbrica è diventato così il cuore della nuova università”.
Un nuovo volume (“lo abbiamo soprannomiato TGV perché ricorda un treno”, ci ha raccontato la progettista) ha sostituito i quattro vecchi edifici: combina metallo e cemento, perché anche da questo punto di vista il progetto ‘riusa’ i materiali del territorio, quelli disponibili, cioè, a km zero. Non solo. Il ‘TGV’, che funzionalmente lega il vecchio al nuovo, propone dal punto di vista formale un linguaggio che si ispira direttamente a quello dell’architettura industriale, come chiarisce la Lobo: “Si impara sempre dall’esistente per costruire il contemporaneo.
A Evora, infatti, abbiamo individuato strategie vincenti, ‘ereditandole’ dal vecchio stabilimento per poi riadattatarle all’edilizia scolastica. Un esempio concreto? Le grandi pensiline che proteggevano le banchine ferroviarie nelle aree di scarico e carico, che abbiamo riproposto nella nuova realtà universitaria per riparare studenti e professori, creando un punto di incontro e di vita. Ecco un’ulteriore conferma di come l’architettura del passato riguardi in modo diretto la contemporaneità. Anche nel più rivoluzionario dei progetti”.
Laura Ragazzola