Quando si entra nel grande salone del piano nobile, l’occhio corre immediatamente in alto, ai bellissimi bassorilievi, accesi di rosso, che disegnano i busti degli imperatori romani per interrompersi, però, bruscamente su un volto con i baffi (moda bandita dall’antica Roma). È, infatti quello del padrone di casa, il nobile vicentino Montano Barbarano, uomo colto e raffinato, committente illuminato ed esigente, che nel 1570 chiamò a progettare la sua fastosa dimora un’archistar dell’epoca: Andrea Palladio.

E qui, all’interno di questo incredibile edificio, l’unico che l’architetto padovano riuscì a vedere perfettamente concluso anche negli apparati decorativi, che Alessandro Scandurra si è confrontato con “la follia” – per dirla con le sue stesse parole – di fare un museo dedicato al grande ‘maestro’.

Architetto, lei firma il progetto curatoriale e il progetto dell’allestimento del ‘Palladio Museum’. Come ha deciso di raccontare la figura del grande progettista veneto?

Creando un museo-laboratorio sempre in divenire. Mi spiego meglio e per farlo partirei da Vicenza, incredibile città-museo dove si concentrano la maggior parte delle opere del Palladio. La definerei una sorta di ‘Cupertino del Cinquecento’: qui vivevano ricchi commercianti, che viaggiavano in tutto il mondo ma che tornati a casa volevano vivere nel palazzo più bello, rivaleggiando con quello del vicino.

Palladio divenne il ‘loro’ architetto, per la straordinarietà dei suoi edifici, rivoluzionari per l’epoca, che bene interpretavano quello spirito coraggioso e contemporaneamente raffinato dei mercanti vicentini.

Così Palladio costruì meravigliose ‘astronavi’ bianche che, atterrate nel disordine della città medievale, restituivano un’apparenza simmetrica a un tessuto urbano fortemente penalizzato dall’andamento ‘sghembo’ degli edifici preesistenti. Insomma pensava in modo nuovo ma, soprattutto, a un mondo nuovo, esattamente come i suoi committenti…fra tutti quel Montano Barbarano che gli commissionò la residenza per la sua famiglia…

…oggi Palladio Museum.

Proprio così. Del resto l’edificio già ospita, a partire dal Dopoguerra, il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio. Ma si trattava di andare oltre, e cioè trasformare la storia del grande architetto in materia viva; di recuperare dal passato la sua straordinaria personalità come modello e non solo come oggetto di studio; di visitare non il mausoleo di un eroe morto ma un luogo vivo, dove far crescere la cultura dell’architettura. Ecco in sintesi la mia idea.

Come è riuscito a concrettizarla?

Mettendo in scena i contenuti (dai disegni ai modelli) come una sorta di backstage teatrale, di cui ho sposato mutevolezza e adattabilità. Ma anche ricercando nuove modalità di comunicazione, per coinvolgere maggiormente il pubblico, anche più giovane.

Così i modelli lignei, semplicementi appoggiati su tavoli con cavalletti da pittore, si affiancano a modelli digitali, video, fotografie che vengono proiettate sulle pareti. Quasi una sorta di reportage sugli edifici palladiani, dove vince uno sguardo contemporaneo e antieroico, che non cela la vita degli uomini dentro le mura di casa. Non solo.

Lungo il percorso espostivo, i visitatori possono sentire contenuti e temi di ciascuna sala direttamente dai grandi esperti di architettura palladiana, che quasi per miracolo compaiono sulle pareti del palazzo come dei ‘piccoli geni’ di una moderna lampada di Aladino. Ma non mancano i documenti storici, come i fogli originali del Palladio, che a rotazione, per ragioni conservative, vengono esposti nelle sale del museo. Senza contare le mostre temporanee…

Su quali temi si concentrano?

Su argomenti complementari all’esposizione permanente del museo, che per certi aspetti contaminano. Per esempio, attualmente è in corso una mostra (dal 19 settembre 2015 al 28 marzo 2016, ndr), che ci fa scoprire un inaspettato collegamento fra il Palladio e il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, uomo colto, grande amante dell’architettura, che partecipò addirittura al concorso per la realizzazione della Casa Bianca, senza vincerlo, ma si rifece costruendo la sua casa. Molto ‘palladiana’: esiste infatti una strana migrazione dell’architettura del Palladio addirittura Oltreoceano. Si può quasi dire che è l’architetto più ‘copiato’ al mondo.

Per quale ragione?

Perché il Palladio lavorava per sistemi. Non ha mai progetttato achitetture uniche, ma elementi riconfigurabili, riproducibili, modulabili. Lo racconterà molto bene lui stesso, negli ultimi anni della sua vita, all’interno dei suoi famosissimi ‘Quattro Libri’: la prima grande opera di divulgazione di architettura.

È questa l’eredità che raccoglie il Museo?

Sì. Diciamo che ci siamo sforzati di farlo per l’architettura di oggi e di domani.

di Laura Ragazzola – foto di Filippo Romano

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Il salone d’onore al primo piano, chiamato il ‘Salone del grano e della gloria’: è, infatti, dedicato alla grandi ville e alla epopea della bonifica che tasformò il Veneto del 500, ma anche ai sogni di gloria dei ricchi committenti palladiani. Il percorso espositivo si snoda per altre quattro sale.
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L'ingresso del Palladio Museum.
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Il nuovo cancello in ferro che porta luce e svela ai passanti l’interno del Palazzo.
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La sezione trasversale del museo con doppio sviluppo.
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Particolare del ‘Salone del grano e della gloria’.
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La ‘Sala Venezia’, dedicata alla Chiesa del Redentore (modello in legno e ologramma di studio).
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La suggestiva proiezione sulle pareti della silhouette di uno degli studiosi del Palladio che come un moderno ‘genietto’ ne racconta l’opera.
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La ‘Sala della pietra’ che parla delle tecnologie messe a punto dal Palladio per costruire i suoi edifici con la pietra (ma anche senza).