Il design è una cosa seria. Talmente seria che, se ci sai fare, puoi anche scherzarci sopra: gli oggetti ‘sopportano’ in ogni caso tanto la serietà quanto la facezia, come ha dimostrato a suo tempo il design postmoderno sdoganando definitivamente la liceità del simbolico accanto a quella del funzionale.
Da allora, alla tradizione ‘moralizzatrice’ del Movimento Moderno – che ha ritenuto suo compito storico instradare l’utente sulla retta via della Funzione – si è progressivamente affiancata una vena del progetto più esuberante ed espressiva, che vede nel giovane designer russo Dima Loginoff uno dei suoi esponenti più interessanti del momento.
Di base a Mosca, in una nazione che, come lui dice, si caratterizza per essere “un paese di vendita al dettaglio senza una produzione di design”, Loginoff ha lavorato più con aziende italiane che russe, a seguito di una convergenza che sostiene essere stata solo accidentale ma che nasconde forse una più profonda affinità elettiva.
“Non ho mai fatto niente di particolare per entrare in contatto con un’azienda. So solo che, nel mio caso, bussare alle porte delle aziende non stava funzionando, così ho provato a far conoscere il mio design anche se si trattava solo di concept, e la cosa ha funzionato. Prima di avere un contratto e dei pezzi in produzione il mio lavoro è stato pubblicato su molte riviste internazionali, ed è così che, credo, Studio Italia Design mi ha notato”.
Ciò che appare subito evidente dai progetti disegnati per questa e altre aziende come Artemide, Axo Light, VitrA, Artex, Evi Style, è il tocco leggero e divertito con cui Loginoff maneggia frammenti poetici attinti tanto da una tradizione ‘preziosa’ dell’arredo quanto dalle nuove sensibilità introdotte dalla sintesi digitale dei polimeri, finemente frullati in traiettorie formali che si sviluppano come le evoluzioni delle biglie di un giocoliere.
Lo stesso Loginoff pensa a se stesso come a “un bambino dell’era di internet”, epoca che mette a disposizione dei designer la possibilità di sondare approdi progettuali a partire dalle sinapsi visive più estreme ed improbabili.
E proprio questo appare dalla produzione del designer russo, di cui sarebbe difficile definire uno stile unico perché il suo, più che un ‘segno’, è un ‘tocco’ caratteristico, un modo di accarezzare i detriti di bellezza restituiti dal riflusso di un’epoca post-storica e usati per definire l’oggetto attraverso una sorta di addizione sottrattiva che più gli aggiunge velature più lo sveste, più lo copre più lo scopre, come una leziosa cipolla della quale si riesce infine ad intravedere il segreto leggero e terribile: l’inesistenza di un nucleo al posto del quale si danno solo eteree, friabili, risonanti pulsazioni di energia.
Testo di Stefano Caggiano