Secondo l’economista statunitense Jeremy Rifkin, si sta affermando nello scenario globale un sistema economico basato su un nuovo paradigma, il commons collaborativo.
Un sistema che apre la possibilità di un’inedita democratizzazione dell’economia, dando vita a una drastica riduzione delle disparità di reddito e a una società ecologicamente più sostenibile.
Motore di questa rivoluzione, paragonabile all’avvento del capitalismo e del socialismo nel XIX secolo, è, secondo Rifkin l’Internet of Things, un’infrastruttura intelligente formata dall’intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell’energia e Internet della logistica.
Introdotto nel 1999 da Kevin Ashton, cofondatore e direttore esecutivo di Auto-ID Center (consorzio di ricerca con sede al MIT), il concetto di IoT racchiude l’idea che siano gli oggetti a dialogare tra loro in rete e non solo i documenti o le persone, come nelle prime due stagioni di internet. Per i designer si aprono così scenari completamente nuovi.
Su quest’apertura di prospettiva lavora Paolo Ciuccarelli, membro del dipartimento di design del comitato di gestione dell’Internet of Things Lab del Politecnico di Milano, una struttura nata per favorire il dialogo tra i designer e altri soggetti che si occupano di IoT.
Attraverso Ciuccarelli abbiamo conosciuto Leandro Agrò, esperto del rapporto tra design e innovazione e tra i principali guru italiani dell’IoT, insieme a Roberto Siagri e Roberto Tagliabue. Lo abbiamo incontrato nella sede milanese di Design Group Italia, il grande studio di product design e brand design dove riveste il ruolo di digital product director.
I designer sono abituati a pensare agli oggetti prevalentemente in temini di forma, ma l’Internet of Things sposta il centro del progetto sull’uso. In questo senso risulta paradigmatico il caso del divano Lift-Bit, progettato da Carlo Ratti Associati. Come può un designer con retroterra ‘analogico’ approcciarsi al progetto dell’Internet of Things?
Steve Jobs diceva che il design degli oggetti non è la loro forma ma il modo in cui le cose funzionano. Nell’Internet of Things spesso gli oggetti nascondono la loro complessità, diventando non solo forma ma anche interfaccia, intesa come modalità di interrelazione con l’utente. Qualche volta appaiono per questo oggetti un po’ magici, che agiscono in automatico senza chiederci nulla, in maniera proattiva. Alcuni si stanno anche interrogando sulle implicazioni legate alla trasparenza nel flusso dei dati, che in alcuni casi è riservata agli oggetti ed esclusa agli utenti.
Esiste però un aspetto, che ho chiamato estetica della fiducia, che attribuisce alla forma la capacità di comunicare la ‘natura’ dell’oggetto anche dal punto di vista dell’interazione. Oggi siamo di fronte a oggetti che stabiliscono con noi una relazione di tipo cognitivo, che devono cioè essere in grado comunicare la loro ‘intelligenza’ anche con la forma.
L’esempio più noto è quello del termostato Nest, capace di rivoluzionare completamente il settore dell’automazione domestica non solo per i suoi processi di funzionamento, ma anche per un design (direttamente derivato da quello dell’iPod Apple) capace di comunicare al primo sguardo un’idea di modernità: non di stile ma di interazione.
Come guardare al rapporto tra hardware e software quando progettiamo un oggetto capace di dialogare con gli altri?
Comprendere la centralità del software rispetto all’hardware è fondamentale per il design. Nell’IoT si fa un gran parlare degli oggetti e questo rischia di trarre in inganno perché tra la parte di atomi e quella di bit esiste infatti un fattore di ‘invecchiamento differenziato’: il software evolve sempre in maniera molto più rapida rispetto all’hardware e di ciò si deve costantemente tenere conto quando si progetta la parte fisica di un oggetto (e non si vuole che la sua anima digitale lo faccia percepire vecchio troppo rapidamente).
Uno dei temi di ricerca più interessanti è quello dell’autonomous drive. Al di là delle sperimentazioni più celebri, come la Google Self-Driving Car o il prototipo F 015 di Mercedes-Benz, colpisce il connubio tra autonomous drive e car sharing, su cui sta attivamente lavorando Uber, che ha recentemente aperto un dipartimento di visualizzazione dei dati. Accostare questi temi significa poter immaginare un futuro con una riduzione davvero significativa delle auto di proprietà, con enormi cambiamenti in termini di inquinamento delle aree urbane e di spazi pubblici liberati a nuovi usi…
Lo sviluppo dell’autonomous drive non cambia solo il lay out degli interni delle automobili, ma lascia intravedere enormi implicazioni, rivoluzionando l’idea di accesso ai servizi della mobilità. In realtà l’autonomous drive esiste già da molti anni: basti pensare al pilota automatico degli aerei. È a quel modello che dobbiamo guardare quando immaginiamo le auto del futuro.
In un tempo più prossimo di quanto non immaginamo potrebbe subentrare il divieto di guidare in autostrada, ma saremo sempre chiamati al volante per attraversare aree urbane a viabilità complessa o per condurre particolari fasi di manovra. Alcune aziende della Silicon Valley stanno studiando dei sistemi operativi di guida applicabili a tutte le autonomous car: estremizzandolo, è un principio che può trasformare le auto in mero ‘hardware’, stabilendo la centralità del software nel sistema di navigazione, come già accade per i computer o gli smartphone.
L’imprevedibilità del machine learning può valere non solo per quanto riguarda i comportamenti degli oggetti, ma anche per la genesi della forma. Si possono cioè immaginare oggetti dotati di una intelligenza formale, veicolata dai dati. Ciò sposterebbe il tema della forma sul piano del metaprogetto: un progetto di sistema, cioè, nel quale si determinano alcune regole dalle quali possono discendere ‘n’ possibilità…
Mi piace guardare a questo tema dal punto di vista del mercato. Sono pochissime le compagnie, a prescindere dalla loro dimensione, che possano pensare di poter procedere autonomamente con un progetto IoT: forse nessuna. Lo stesso vale per gli studi di design, chiamati a relazionarsi non più solo con i dati, ma con i big data.
Per questo è più sensato agire sulle regole che sugli oggetti finiti. L’Internet of Things è la più grande occasione di business mai apparsa, è più grande di internet stessa. Per comprenderne la portata basti immaginare uno scenario in cui tutte le cose del mondo si scambiano informazioni. E non si tratta neppure di uno scenario così lontano; in alcuni settori già avviene ed è lo standard di riferimento: la maggior parte dei nuovi robot che presto verranno inglobati nella catene di montaggio dialogheranno tra loro, in quella che è la cosiddetta industria 4.0.
Eppure a molti il tema dell’IoT appare ancora come riservato agli addetti ai lavori o ai mitici frigoriferi parlanti…
Si dovrebbe comprendere che l’IoT ha dignità di cittadinanza nella disciplina nobile del design al pari delle modalità tradizionali di progettare gli oggetti. Si tratta di uno scarto culturale che dobbiamo compiere, specialmente in Italia.
A San Francisco e nella Silicon Valley non viene colta la relazione tra le parole “design” e “Milano”. Occorre riflettere, per esempio, sul fatto che un movimento di grande spessore e rilevanza come quello del gruppo Memphis muoveva i suoi passi in Italia nello stesso periodo in cui dall’altra parte dell’oceano nasceva il Macintosh, un oggetto rivoluzionario che avrebbe spostato il cuore del design da un approccio ego-centrico a uno squisitamente user-centrico.
È anche vero, però, che la Apple è stata salvata dall’‘iCandy’: un pezzo di plastica colorata. E pensando a quello che abbiamo fatto in Italia con i materiali, i colori e le finiture, direi che abbiamo un mondo davanti a noi.
Testo di Guido Musante