Krizia now. Looking back, going forward, la mostra a Palazzo Litta a Milano, che ha festeggiato, con questo titolo-manifesto, nel 2014 sessant’anni di attività del brand, ma anche l’ingresso nella maison fondata dall’italiana Mariuccia Mandelli della cinese Zhu Chongyun, nuovo presidente e direttore creativo, era stata il preludio.

L’architetto Vincenzo De Cotiis vi aveva partecipato con un’installazione-scultura in ottone, parte dell’allestimento complessivo. Il successivo step è stato il ridisegno dello storico flagship store di via della Spiga, nel cuore del quadrilatero milanese della moda.

“Abbiamo scelto lui, perché la sua visione del progetto e il suo stile minimale, contemporaneo e artistico, corrisponde appieno al gusto estetico della mia collezione moda. Mi piace il suo approccio ai materiali, molto simile al mio, il mix di texture sofisticate, preziose e ruvide, con cui sperimenta, senza escludere di mostrare la bellezza insita nelle imperfezioni del processo produttivo. Vi riconosco una sorta di avanguardia di accento futurista” commenta Zhu Chongyun, ingegnere meccanico diventata stilista per passione.

Autodidatta, come lo fu, agli inizi, la maestra elementare Mandelli. E, come lo è stato, in un certo senso De Cotiis, una ricerca fuori dal coro nel territorio ibrido tra arte e design, iniziata 25 anni fa con Progetto domestico (una collezione di arredi in pezzi unici, molti dei quali realizzati con materiali riciclati, legno, vetroresina, ottone in fusione).

I tagli, le forme, le linee plastiche delle geometrie astratte che ora abitano la rinnovata boutique Krizia, 300 mq su due livelli, in un mix contrastante di ‘pelli’ raw e levigate, metropolitane, nascono da questo percorso e da queste radici. Uno sguardo diverso sul progetto che corrisponde all’autentico piacere (e talento) di poter recuperare sempre il fascino di un pre-esistente toccato da nuove possibilità di vita.

De Cotiis non ha mai pensato in modo seriale alle cose che fa. Si affida a un circuito di laboratori artigianali di fiducia per la prototipazione dei pezzi. Il concetto di omologazione non gli appartiene. Per lui il design è arte o meglio non può essere solo industria. Come per Gaetano Pesce.

Nella fattispecie, ha saputo coniugare in modo brillante questo riconoscibile marchio di fabbrica con la comprensione dei valori storici e culturali di un brand profondamente italiano. “Siamo riusciti a ottenere un risultato architettonico più che decorativo” racconta “plasmando e disegnando la materia non tanto in una texture grafica riproducibile all’infinito, quanto in una soluzione legata al pezzo unico o a una logica di limited edition”.

Dai pavimenti in lastre di fusione di alluminio, onice bianco, pietra blu del Belgio ai soffitti in steelcolor, pannelli artistici in resina, vetroresina retroilluminata, alle pareti in vetroresina, steelcolor, ferro naturale; dagli espositori in ottone lucido agli elementi d’arredo prismatico in vetroresina, tutto parla di craft made (eccezion fatta per le sorgenti luminose di produzione Erco); e di un’immagine ridotta all’essenziale, che non interferisce con il protagonismo dei capi e degli accessori sulla scena.

D’altronde, nell’interpretazione dell’attuale corso, era inevitabile una proiezione verso il futuro. “Ciò ha significato per me a livello di concept innovare nella continuità, segnando il cambio di rotta, con l’idea dell’unicum, della boutique, della qualità esclusiva che diventa espressione di lusso.

Sul piano compositivo, ha voluto dire modificare radicalmente il layout spaziale, riportando il corpo scala a una centralità non solo figurativa, in grado di rendere subito percepibile una facile fruibilità, ma anche l’importanza di un oggetto architettonico freestanding, con struttura in ferro, un solo punto di ancoraggio al piano superiore e uno a quello inferiore, un rivestimento di pietra blu del Belgio all’interno e in steelcolor all’esterno, enfatizzato dalle superfici riflettenti dell’involucro, che restituiscono effetti di coloritura modulata attraverso la luce.

Un inedito. Non dimentichiamo che disegnare la moda con l’architettura equivale a rappresentare un abito su misura. E il proprio abito è di per sé il primo luogo dove viviamo. Questa unicità è ciò che, nel progetto retail, mi consente di rendere sempre riconoscibile l’ identità dei brand con cui mi relaziono, anche quando lavoro su realtà di largo consumo”.

Alla fine, gli oggetti che popolano questo interno sono presenze dense; sostanziano un’alchimia di luce, trasparenze e fluidità che sottende una profondità formale e sentimentale, veicolando un senso dell’abitare come opera aperta di sintesi estetica e materica. Emozionale.

“Preferisco qualcosa di stridente a qualcosa che coincida perfettamente” commenta De Cotiis. “Mi spaventa tutto ciò che è corretto; provo una sensazione di vuoto. Perché non riesco a vedere oltre”.

foto di Santi Caleca – testo di Antonella Boisi