Lo scorso novembre ha fatto discutere il conferimento del prestigioso Good Design Award a una mappa geografica. Il progetto, davvero molto interessante e detonatore di un punto di vista rivoluzionario sul mondo (benché colpevole di alcune lacune, come l’assenza del Sud Sudan), è dell’architetto e artista giapponese Hajime Narukawa, di Tokyo.

Negli anni, molti artisti, designer e grafici si sono cimentati variamente con questo affascinante tema: alcuni ci hanno girato intorno in maniera parascientifica giocando al “cosa se…”, alcuni ne hanno provocatoriamente ricentrato i baricentri, alcuni hanno invertito oceani e terraferma, altri ancora hanno ribaltato i punti di vista, sempre partendo dalla mappa originaria che tutti abbiamo studiato sui banchi di scuola e che risale al 1569 per mano del geografo Gerardus Mercator.

Narukawa, a sua volta, ha messo a punto un metodoAuthagraph – che gli ha permesso di riportare, in anni di studio e registrazione, gli aggiornamenti dovuti ai cambiamenti climatici e geopolitici, restituendo una prospettiva il più possibile avanzata del nostro pianeta.

La cosa a colpo d’occhio più interessante di questa nuova mappa è vedere l’Europa in alto a sinistra in un angolino. Vedere il mondo con una prospettiva diversa può forse aiutare anche a leggere il mondo con occhi diversi?

La mostra La geografia serve a fare la guerra?, a cura di Massimo Rossi per la Fondazione Benetton, allestita da Fabrica a Palazzo Bomben di Treviso come un viaggio esperienziale attraverso le visioni che hanno informato le letture del mondo per diversi secoli, mette proprio un punto interrogativo all’affermazione che il geografo marxista Yves Lacoste usò per enfatizzare la stretta relazione tra geografia e potere: La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre.

La mostra, visitabile fino al 17 febbraio, raccoglie in tre sezioni – intitolate “Rocce e acque”, “Segni umani” e “Carte da guerra” – una selezione del gigantesco patrimonio della cartoteca della Fondazione che svolge da anni attività di ricerca nel vasto mondo del paesaggio e dello studio dei luoghi.

L’idea della mostra è provare a raccontare un’altra geografia possibile, che, un po’ come nella mappa di Narukawa, dialoga e si trasforma insieme ai processi naturali, ma prende anche atto, sull’insegnamento di due autorevoli testimoni di un secolo fa (il geografo Cesare Battisti e lo storico Gaetano Salvemini), che “non esistono confini politici naturali, perché tutti i confini politici sono artificiali, cioè creati dalla coscienza e dalla volontà dell’uomo”.

La guerra, si sa, è fatta dagli uomini. Ma anche le carte geografiche sono fatte da uomini e senza geografia, confini, nazioni, forse non esisterebbero le guerre così come le conosciamo. Ecco perché pensare alla geografia come qualcosa anch’esso in cambiamento, significa anche modificare le coscienze e orientarne la volontà futura.

La geografia, insiste il curatore, è anche un “cantiere permanentemente aperto”, “una disciplina imprendibile”, che fa proprio lo sguardo della società che la formula in quel momento e quindi con essa entra in crisi, esacerbandone i problemi, ma anche descrivendone i sogni, l’immaginazione e le ambizioni.

Una disciplina che mette ordine e traccia confini intorno a pensieri che altrimenti sarebbero confusi e inservibili. Geografia e design hanno in questo senso molto in comune. Se non fosse che il buon design serve, principalmente, per fare la pace?

Testo di Chiara Alessi

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Manifesto della mostra "Il design serve alla geografia" a cura di Massimo Rossi, in programma a Palazzo Bomben (Treviso) fino al 17 febbraio 2017.
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Il concept della terza sezione della mostra “Carte da guerra”.
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L’allestimento della mostra a cura di Fabrica.
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Il concept della seconda sezione “Segni umani”.
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Heinrick Berghaus, Physikalischer Atlas, una delle mappe storiche esposte alla mostra.