Fu l’incontro tra i primi oggetti meccanici presentati all’esposizione di Londra del 1851 e le istanze artistico-artigianali di movimenti come le Arts & Crafts a innescare la vicenda storica del design.

Oggi come allora, lo scontro tra cultura digitale e cultura materiale sta dando inizio a una nuova storia del progetto, che vede il senso solido, regressivo, ‘gravitazionale’ della materia contrapporsi alla nebulizzazione informatica delle cose.

È questo impatto a essere raccontato nella prima collezione di JCP, brand programmaticamente ibrido che mescola in un amalgama proteiforme il talento di designer diversi come Emanuele Magini, Alessandro Zambelli e i CTRLZAK, che hanno curato anche la direzione artistica.

A metà tra arte e design, fisica e metafisica, la collezione vede fasci di dettagli avvolti su residui di archetipi e brani esplicitamente figurativi caricati su accenni di ciò che gli oggetti avrebbero potuto essere.

Con l’obiettivo, dichiarato dal fondatore Livio Ballabio, di “esprimere una visione all’approccio progettuale per l’abitare meno stereotipata e meno vincolata dalle regole estetiche e formali su cui si è fondato il design fino a oggi”.

L’esito è deflagrante: JCP fa alla storia del design quello che De Chirico ha fatto alla storia dell’arte, smontandone la tradizione formale per accostare i frammenti ottenuti lungo prospettive parziali ed eccentriche.

Densa e astratta, spessa e appuntita, la collezione appare chiaramente mossa da un intento poetico: come, infatti, la poesia sottrae la parola alla mera utilità pragmatica (trasmettere informazioni) per restituirla a uno stadio di plasticità primordiale, così gli oggetti sono qui distolti dalla piatta funzione di servizio per essere restituiti al loro antico, sempre latente potenziale poetico.

E mentre gli oggetti ‘funzionali’ trovano il loro punto di massima realizzazione nel momento in cui spariscono agli occhi dell’utente per abilitarne la fluency d’uso, gli oggetti ‘poetici’ si affermano come presenze opache che resistono allo sguardo dell’utente favorendo in lui la comprensione del design come cronaca dello scontro tra l’intelletto umano e la forza di gravità – collisione cosmica da cui prende forma il nulla scolpito nella contingenza.

Foto di Silvio Macchi – Testo di Stefano Caggiano

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Surande di Alessandro Zambelli è un oggetto ibrido composto da lampada e tavolino in marmo di Carrara. La sfera di vetro riflette la luce dando all’ambiente un’atmosfera ammaliante.
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Il pouf Oglof di CTRLZAK è realizzato con chilometri di frangia che portano l’oggetto ai limiti della sua stessa definizione, mentre l’appendiabiti Galaver è pensato da Emanuele Magini come glorificazione di un oggetto che svolge la sua funzione ordinaria.
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Il divano Orauro di Emanuele Magini è ottenuto dallo svuotamento della classica lavorazione capitonnée, di cui rimane solo un intreccio d’oro intricato e indistruttibile.
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Osforth di Emanuele Magini si presenta come una seduta di derivazione fiabesca, prolungata in un tappeto capitonnée color rubino.