Gli oggetti d’uso non sono tutti uguali. Mentre alcuni estendono la gestualità umana in modo fluido e scorrevole, altri dispongono l’utente in una posizione di quasi totale passività.
È un esempio del primo caso la penna, che mentre viene utilizzata fa tutt’uno con la mano che la muove. Ed è un esempio del secondo caso il televisore, che richiede allo spettatore di restare inerte con l’attenzione interamente proiettata su uno schermo. Interagendo con oggetti così diversi come penna e televisore, attiviamo (o disattiviamo) schemi d’azione cognitiva e motoria altrettanto diversi e specifici.
Ma cosa succede quando l’evoluzione verso l’Internet delle cose dona a qualsiasi oggetto d’uso – penne, vestiti, tavoli, sedie, lampade – una nuova qualità digitale, che richiede, per essere utilizzata, un qualche tipo di interfaccia?
L’implementazione di internet nel corpo materiale delle cose rappresenta certamente una grande rivoluzione non solo tecnologica, ma anche antropologica. E tuttavia, le rivoluzioni non sono mai a costo zero. Che ne sarà del nostro rapporto con gli oggetti nel momento in cui i loro corpi saranno diffusamente abitati dagli spiriti digitali? Che genere di relazione avremo con un parco oggetti non più occasionalmente, ma interamente digitalizzato?
Per capire che cosa ciò potrebbe dire è sufficiente osservare quanto già sta avvenendo ai cosiddetti deadwalker, pedoni che camminano con lo sguardo fisso sullo smartphone e che, segnalano le unità di pronto soccorso, sono sempre più spesso coinvolti in incidenti dovuti alla distrazione.
Anche senza guardare alle statistiche, è esperienza comune quella di persone nei luoghi di lavoro, nelle scuole o nei ristoranti del tutto alienate dalla situazione in cui si trovano perché ipnotizzate dal luccichio spettrale dello smartphone. Non si tratta di fenomeni marginali. Il dilagare di questi episodi segnala che siamo di fronte a qualcosa di più che a delle semplici sbadataggini.
Sono infatti gli stessi dispositivi digitali a esigere, per loro logica d’uso, che l’utente sganci il focus cognitivo dalla situazione in cui si trova e lo proietti nell’interfaccia a schermo, come farebbe con un televisore.
A differenza del televisore, però, lo smartphone viene utilizzato in situazione, ed è qui che sorgono i problemi, perché, nel momento in cui si relaziona con un’interfaccia a schermo, l’utente vive uno stato di dissociazione tra corpo e mente, con conseguente disallineamento tra ambito d’azione fisica e focalizzazione cognitiva. E più il digitale si diffonde in qualsiasi genere di prodotto, più questa dissociazione, per ora circoscritta solo agli smartphone, rischia di propagarsi all’intero parco oggetti.
Certamente, l’evoluzione materiale del digitale non può essere arrestata. È però possibile evitarne un esito così ‘distopico’? E se sì, dove bisogna intervenire per giungere a uno sviluppo non alienante dell’internet delle cose? A generare la dissociazione tra azione motoria e attenzione cognitiva non è la qualità digitale in sé, ma il fatto che essa venga proposta all’utente tramite un’interfaccia a schermo assurdamente multifunzionale.
Per abilitare un’integrazione positiva con la realtà occorre dunque aggirare, o meglio trascendere la dimensione dello schermo per coinvolgere l’utente in fenomeni di interfaccia che ne accolgano l’intera sensorialità.
In altre parole, è il design materiale dell’oggetto a doversi fare esso stesso interfaccia – un’interfaccia solida, oggettuale, morbida come una poltrona o rigida come un mobile ad anta, realizzata con tessuti intelligenti che rivestono un divano o legni da tavolo dalle cui fibre traspare la piccola aurora boreale rilasciata da un led, a informare, in maniera quasi subliminale, di un’interazione in atto tra ‘oggetti intelligenti’.
Sarà cioè la qualità tattile delle superfici, la cura nobile dei dettagli, il profumo granuloso dei materiali a fornire una via ‘sostenibile’ alla diffusione fisica di internet. Ché più gli oggetti diventeranno intelligenti, più dovranno diventare anche sensibili, ed è proprio qui, sulla pelle degli oggetti, che si giocherà la partita della convergenza tra reale e digitale.
Partita storica, epocale, che potrà essere vinta non con l’assurda moltiplicazione di schermi su qualsiasi cosa, ma attraverso la ridefinizione estetica degli oggetti in termini di interfaccia d’arredo, oggettuale e distribuita, curata non (o non solo) in termini di design grafico, ma soprattutto di design di prodotto. È questo il luogo di progetto in cui intervenire per disegnare un futuro diverso del digitale materiale. Attingendo alle risorse estetiche, formali, materiali, culturali del design d’arredo e di prodotto.
Testo di Stefano Caggiano







