Gio Ponti oltre a essere uno dei primi architetti globali del Novecento, con edifici realizzati e progettati in Italia e in Europa (ma anche in Paesi extra-europei, da Hong Kong a Denver, da Bagdad a Caracas, da San Paolo a New York) è anche un designer riconosciuto a livello internazionale, quanto un noto teorico e critico dell’architettura.
Alla sua curiosità e al suo genio si devono le nascite della rivista Domus e della storica pubblicazione Stile, come un largo impegno nella ricerca dei legami tra l’architettura e le arti, compresa la loro promozione ed esposizione, che portò alla creazione della prima mostra Triennale di Milano nel 1933 e nel coor 0dinamento di molte delle edizioni successive. Per Interni, Chiara Spangaro intervista il curatore della mostra, Germano Celant. Considerata la complessità dell’opera di Gio Ponti che spazia in tutte le direzioni – dal design alla grafica, dall’architettura all’arredo, dalla teoria all’informazione – come è stata concepita la sua presentazione a Milano negli spazi della Triennale? L’esperienza di entrare a conoscere il suo lavoro può avvicinarsi a quella di un labirinto, dov’è inevitabile trovarsi dinanzi molte strade e non sapere quali prendere, perché tutte importanti e stimolanti, con il risultato finale di perdersi. La sua produzione è talmente plurale, quasi un caleidoscopio, che tutte le componenti poetiche accrescono la suggestione di un’interpretazione infinita. Inoltre la ricchezza di potenzialità linguistiche può far pensare ad un’altra lettura, quella di un caleidoscopio che ruotando produce innumerevoli figure, per cui intrecciando i materiali la suggestività delle immagini si rinnova continuamente. La polivalenza dei momenti di Ponti sin dall’inizio del suo percorso, gli anni Venti, è ricchezza produttiva, ma anche intellettuale. Facendo un parallelo espressivo e comportamentale si potrebbe affermare che Ponti articola una poetica democratica rispetto ai linguaggi, come farà in seguito Andy Warhol. Lavorando in tutti i territori dell’espressività e facendoli suoi, attraverso intuizioni e tecniche innovative, l’architetto-designer milanese ha scelto di operare in tutte le situazioni e in tutte le condizioni del fare progettuale. Questa apertura gli è costata la “rimozione” dall’universo purista e formalista dell’epoca, dominata dall’assolutismo razionalista. Si potrebbe dire che Ponti è invece un architetto “irrazionalista”, aperto a tutte le esperienze e a tutte le fughe dalle strutture condizionate da un internazionalismo astratto e vuoto. La sua forza è stata di “costruire” di volta in volta un mondo, così da non seguire una linearità impersonale, ma totalmente personale. Di fatto si è imposto come un cuneo impazzito e sorprendente in una cultura architettonica e industriale che, credendo in un generico programma che oscillava dal commerciale allo stilistico, era sorda e ostile alla forza dirompente dell’immaginario incontrollato e, quasi, incoerente. Se a contare è il gioco delle dissonanze e dei salti linguistici, come si potrà allora riconoscere un’identità di Ponti? Anche nell’incoerenza si pone una coerenza e nel disarticolato si può trovare un’articolazione che scaturiscono soltanto dal senso di insieme della mostra. L’atteggiamento ‘irrazionale’ e ‘negativo’ che Ponti ha professato a una lettura storica si impone come un momento di massimo sforzo liberatorio. Lo stesso si potrà dire dell’accelerazione ‘consumista’ e ‘generalista’ che impregna tutta la sua produzione. Il fatto di accettare o di promuovere qualsiasi committenza rivela una visione globale del design che non può vantare una posizione gerarchica rispetto agli oggetti e alla cose. Lo stesso si può affermare per la sua visione “sferica” del mercato e del territorio d’intervento, tanto che i suoi progetti spaziano in tutto l’arco delle cultura dall’Italia al Venezuela, dal Brasile al Canada, dagli Usa all’Iran. È forse il primo architetto, insieme a Le Corbusier e Mies van der Rohe, ad intuire la futura mondializzazione del design e dell’architettura, al punto tale da impegnarsi anche sui primi media di trasporto intercontinentali: le navi. In questa apertura rientrano le progettazioni che implicano una forte simbologia, quelle che riguardano una dimensione proiettiva economico-politica, spirituale e culturale: dal grattacielo Pirelli, Milano, 1956-1960, alla cattedrale della Gran Madre di Dio, Taranto, 1964-1971 e al Denver Art Museum, 1966-1972. Come si svilupperà questa lettura all’interno dell’esposizione? Sarà possibile identificare dei filoni specifici quanto l’intreccio di Ponti? Di fatto la mostra sarà un arcipelago di isole, che rappresentano la molteplicità di luoghi ‘abitati’ da Ponti, ma al tempo stesso cercherà di darne un percorso cronologico, così da far sentire la sintonia con lo ‘spirito del tempo’. Pertanto si parte dagli anni Venti per arrivare alla sua ultima produzione, facendo sentire tutti i passaggi di soggetto quanto di scala, dalle ceramiche, porcellane e maioliche di Richard-Ginori ai mobili di radica, dai tessuti di Ferrari e Manifattura Jsa ai vetri di Venini, dalle collaborazioni con Fornasetti, Melotti e de Poli alle sedie e poltrone di Cassina. Insomma l’ipotesi è di compiere un viaggio nel mondo di Ponti, approdando nei vari porti del suo linguaggio che include i risultati iconici del suo fare, dalla parete e dalla finestra arredate alla superleggera, dalle posate agli argenti e agli smalti… mettendo in parallelo i modelli di interni e di architettura, da villa Planchart, Caracas, 1955, alla chiesa di San Carlo Borromeo, Milano, 1966, così da ricordare il livello di intervento dal micro al macro. Inoltre al fine di spettacolarizzare l’evento, insieme alla famiglia Ponti si è pensato di ricostruire una porzione del pavimento realizzato per gli uffici del Salzburger Nachrichten, 1976, che, con la sua forte cromaticità, evidenzia la potenza visuale dell’equivalenza tra colore ed architettura. Un mosaico di tasselli creativi e produttivi che vivono di diversità e di sorpresa. Si incontrano e si scontrano con una fluttuazione irregolare e poetica, quasi impossibile da definire. Un ritratto dove le varie componenti artigianali e industriali, dai dipinti agli smalti, dalle maioliche alla macchina da caffè Pavoni, 1948, sono in contemporanea sullo stesso volto al punto tale che si è sentita l’esigenza di creare una stanza-studio dove la figura di Ponti potesse essere percepita sullo sfondo della sua città, Milano. Quasi una pittura a tridimensione dove in piano s’incontrano i progetti, modelli o disegni, dal primo palazzo Montecatini, 1936-1938, al Grattacielo Pirelli, quanto i suoi tavoli da lavoro e le sue librerie, mescolate sui muri con disegni e schizzi, mentre nei mobili si trovano vasi e argenti, e in un’altra parte la collezione dei suoi libri, come Amate l’architettura, 1957, e delle riviste, da lui fondate, Domus e Stile. Una wunderkammer personale dove saranno presenti anche film e video che lo vedono protagonista, insieme ai suoi oggetti, come la “sedia di poco sedile”, 1971, o i servizi di ceramica Pozzi, 1967. L’idea è anche di segnalare, in mostra, la potenzialità scientifica degli archivi Ponti, sia per quanto riguarda la documentazione fotografica, sia le lettere e i disegni, che rendono magiche le ‘espressioni di Gio Ponti’, titolo anche della mostra a Milano. Inoltre per far comprendere la ricchezza di interventi in città si è deciso di fornire una mappatura degli edifici milanesi, da via Randaccio, 1925, alla chiesa di San Francesco al Fopponino, 1961-1964. Tale percorso sarà concretizzato con guide e visite, in collaborazione con gli studiosi del Politecnico di Milano, così da diffondere ‘per strada’ il linguaggio di Ponti.