Bjarke Ingels è forse l’architetto della generazione dei quarantenni con maggiore visibilità internazionale, forte di una capacità di comunicazione e di controllo dei progetti ben ereditata dal suo grande mentore Rem Koolhaas e codificata in un manifesto a fumetti di universale diffusione: Yes is more.
Danese, Ingels dirige con energia e approccio informale il suo ormai celebre studio BIG (Bjarke Ingels Group), fondato nel 2006 a Copenhagen e dal 2012 con sede anche a New York.Giocoso già nel nome (più che un acronimo del suo fondatore ne sembra il divertito appellativo), BIG trova nel gioco una ricorrente modalità espressiva.
Non a caso molti dei suoi più famosi edifici richiamano ‘qualcos’altro’, come in una rappresentazione ludica: una grande lettera (VM Houses, Ørestad, Copenhagen, 2004-2005), una montagna (Bjerget-Mountain Dwellings, Ørestad, Copenhagen, 2008) o magari una figura di Escher, da percorrere in bicicletta (Padiglione danese all’Expo di Shanghai, 2010).
Come molti maestri dell’architettura moderna, Bjarke Ingels non disdegna il confronto con l’industrial design, che si era fino a oggi articolato prevalentemente attraverso il format di KiBiSi, uno studio di consulenza progettuale fondato nel 2009 insieme a Lars Larsen (Kilo design) e Jens Martin Skibsted (Skibsted Ideation).
Appartiene però a una nuova stagione la presenza di BIG alla design week milanese di quest’anno, avviata attraverso la collaborazione con due storici marchi del design italiano e internazionale come Artemide e Danese. Quando un architetto si confronta con il disegno industriale si tenta spesso di rintracciare le affinità tra il suo approccio all’architettura e quello agli oggetti. Nei casi in questione simili affinità non risultano in realtà immediatamente percepibili, eppure sono presenti in forma sottile e raffinata, non direttamente correlata con la forma.
Il progetto per Artemide, Alphabet of Light, si basa su un abaco ristretto di elementi geometrici essenziali, lineari o curvi, che assemblati possono comporre le lettere di un font luminoso o anche dare vita a innumerevoli configurazioni di luce.
Oltre a richiamare le classiche insegne luminose (“l’obiettivo primario del progetto era quello di creare una lampada che sarebbe stata in grado di competere con i neon”, precisa il progettista), Alphabet of Light può rinviare al lavoro di artisti come Bruce Nauman, Mario Merz, Mona Hatoum, che hanno fatto della luce un codice linguistico dirompente.
La razionale flessibilità del sistema (“volevamo poter comporre tutti i caratteri con il minor numero di componenti possibile”) è custodita in uno speciale giunto di connessione elettromagnetico, che permette rapidi assemblaggi dei singoli elementi e che scompare nel corpo della lampada senza generare all’esterno ombreggiature o segni di discontinuità.
Alla semplicità geometrica delle forme di Alphabet of Light corrisponde una marcata complessità dei dispositivi interni. Il sistema ottico brevettato si basa su una sottile anima centrale in alluminio che supporta una coppia di strip led che emettono luce sui lati opposti. Il rendimento è elevato, l’assorbimento dei materiali è minimo e la luce viene più volte riprocessata all’interno, senza dispersioni.
La nascente stagione dei led bianchi spinge a indagare nuovi linguaggi tecnici ed espressivi capaci di interpretare le specificità della nuova fonte miniaturizzata con la sensibilità della cultura del progetto. Alphabet of Light dà corpo a questa attitudine, testimoniando l’attitudine di Artemide verso la ricerca di contenuti formali non disgiunti dall’innovazione tecnologica.
Come già accaduto più volte con l’architettura, con questo progetto BIG concepisce infatti la genesi degli oggetti come parte di un coinvolgente gioco evolutivo (“evolution is more than revolution”) al quale tutti sono chiamati a far parte e che permette alla luce di tracciare nello spazio una nuova forma di scrittura.
È riferito all’architettura – già nel nome – anche Window Garden, un divertente sistema per il verde domestico che non si fa davvero fatica a immaginare sul davanzale di una finestra così come nell’angolo di un soggiorno o di una terrazza.
Nel caso di Window Garden l’approccio ludico di BIG trova un’ideale corrispondenza in Danese, marchio che custodisce l’idea del gioco nel proprio dna, dalle icone di Bruno Munari fino ai più recenti contributi di Enzo Mari e di Arik Levy.
Il tema è interpretato in questo caso mediante la giustapposizione di una serie di vasi in porcellana bianca stampata ad alta pressione, sorretti da un sottile supporto metallico centrale con base a treppiede, nella versione self standing, e da un cavo d’acciaio nella versione sospesa.
La particolare sezione del vaso è studiata per consentire la coltura idroponica: l’acqua filtrata dal poco terreno o dal substrato viene trattenuta quanto serve sul fondo ed è espulsa nella quantità in eccesso attraverso un foro sul fondo da cui, grazie a un piccolo tubo, nutre a caduta il vaso sottostante.
Un piccolo incavo sulla circonferenza del vaso permette il passaggio di un cavo d’acciaio per il fissaggio alla struttura. La versione più scenografica è certamente quella self standing con asta alta che sorregge sette vasi sovrapposti: soluzione che ripropone su scala domestica il soggetto del verde proiettato verso l’alto, molto presente nella poetica del racconto fantastico e recentemente messo in scena in chiave architettonica dal Bosco Verticale di Boeri Studio a Milano.
Gregory Bateson ha individuato l’essenza del gioco nel suo essere metalinguaggio, ovvero nel permettere a ogni giocatore di potersi riconoscere in un mondo altro in cui azioni fittizie simulano azioni reali. Una capacità che gli edifici di BIG da sempre possiedono e che ha contribuito negli anni alla loro affermazione su scala internazionale.
Eppure oggi, interagendo con le lettere luminose e i vasi volanti che BIG ci propone, possiamo sentirci noi stessi chiamati a parlare quello strano linguaggio, che induce una leggera vibrazione nella realtà e ci allontana dall’immagine consueta delle cose.
Testo di Guido Musante