Un ‘matrimonio’ riuscito si vede anche dalle piccole cose: come la conversazione in perfetta sintonia tra Roberto Gavazzi, amministratore delegato di Boffi, e Luca De Padova, presidente di De Padova, mentre raccontano le tappe dell’alleanza tra i due brand sancita nell’aprile scorso. I due protagonisti intrecciano con naturalezza gli interventi, quasi che a parlare sia una sola persona.
Una profonda intesa sostiene questa alleanza, che ha visto Boffi entrare al 100% nel capitale di De Padova, con Luca De Padova presidente e Roberto Gavazzi amministratore delegato; dal canto suo, Luca De Padova ha acquisito il 7,5% delle quote di Boffi, assumendone la carica di vice-presidente, con Gavazzi amministratore delegato.
Come è nata l’idea di questa alleanza, come si è concretizzata?
Luca De Padova: Roberto conosceva mia madre Maddalena, mentre noi ci siamo conosciuti nel 2011: c’era una prima idea di collaborazione legata agli spazi di Corso Venezia. C’è sempre stata la consapevolezza che si poteva fare qualcosa, anche se c’erano altri pretendenti…
Roberto Gavazzi: una bella signora ha sempre tanti pretendenti…
L.D.P. Quello di Boffi era il progetto più forte.
R.G. Ho sempre avuto questo ‘pallino’ delle alleanze, di allargare le collaborazioni per essere più forti, visibili, capaci di interpretare progetti di sviluppo del design in maniera più completa, lasciando a Boffi quello che è il suo mestiere, quello dei sistemi della casa – cucina, bagno, armadio. Dell’operazione De Padova ne avevo parlato già con Maddalena quindici anni fa. Quello che è avvenuto recentemente con Luca è qualcosa di fortunato perché De Padova è il partner perfetto per Boffi.
Qual è l’obiettivo di questa unione?
L.D.P. L’obiettivo è di essere forti su tutto il range della casa: dalla cucina ai bagni, dagli armadi al soggiorno, alla camera da letto, ai sistemi. In questo modo abbiamo pensato di essere veramente completi come tipo di offerta e per lo stesso target – spesso e volentieri i clienti sono comuni. Per De Padova è stato importante potersi appoggiare alla rete vendita di Boffi.
R.G. Ci sono 55-60 negozi monomarca nel mondo, che riescono a far vendere il 70-80 % del prodotto Boffi. Solo un 25% è venduto nei negozi multimarca.
Questa completezza di offerta che cosa vi garantirà?
R.G. Le aziende italiane del mobile sono tutte piccole; riuscire a svilupparsi sull’internazionale richiede dimensioni importanti. Negli ultimi anni si sono ridotte tantissimo le opportunità di distribuzione: a volte ci si trova tutti a fare la fila fuori dallo stesso distributore. È importantissimo, invece, avere una forza di brand e una forza di azienda tale da aprire negozi diretti. Boffi già da sola si era mossa in questa direzione: il modello del negozio di via Solferino a Milano ha permesso di replicare questo tipo di soluzioni. Il problema numero uno delle aziende italiane di mobili oggi è quello di avere accesso ai mercati esteri. Tutti produciamo dei bellissimi prodotti, tutti abbiamo una bella creatività, una buona immagine. La differenza tra le aziende è fatta dalla forza del brand e dalla capacità di distribuire in modo forte sui mercati ester
Ma se fosse così semplice, perché non lo fanno tutti?
R.G. Lo fanno solo alcune aziende: i costi sono altissimi per aprire negozi diretti in giro per il mondo (da un minimo di mezzo milione di euro per negozi in Europa a uno o due milioni per NY e Londra). Ci vuole tempo per farli funzionare, bisogna avere team efficaci.
L.D.P. Roberto ha avuto la vista lunga: i 22 monomarca diretti sono stati aperti gradualmente; la capacità di gestirli è fondamentale, oltre a conoscere bene il mercato.
L’internazionalità di Boffi e De Padova è allo stesso livello?
L.D.P. De Padova è sempre stata riconosciuta a livello internazionale da una piccola nicchia di estimatori. Il brand ha un grande potenziale che va meglio sviluppato: dal 2007 abbiamo spinto in questa direzione con la nostra squadra commerciale, ma questa partnership ci darà molta più forza sui mercati esteri.
R.G. La maggior parte dei nostri negozi diretti – almeno 15 – saranno sia Boffi che De Padova, ma non è un dogma; è un modo abbastanza veloce per conquistare alcune città. Anche dodici monomarca in franchising prenderanno De Padova come ulteriore marchio: nell’arco di un anno arriveremo a creare una trentina di negozi con Boffi e De Padova. Ma l’operazione è piaciuta talmente tanto che stiamo ricevendo altre richieste: De Padova ha molto spazio per crescere.
Con che massa critica di fatturato pensate di chiudere l’anno?
R.G. Nel 2015 dovremmo raggiungere 82 milioni di euro: 7 da De Padova, 75 da Boffi.
Lo spazio di De Padova in Corso Venezia non poteva essere conservato?
R.G. No, per varie ragioni: a parte il discorso economico, ci fa gioco comunicare il cambio radicale di impostazione. La nuova sede di De Padova, che inaugurerà a ottobre, sarà in via Santa Cecilia, senza vetrine. Secondo noi i negozi di arredo non devono vivere di grandi vetrine, soprattutto in luoghi come Milano dove il marchio è conosciuto. Non ci interessa il desiderio creato dalla vetrina: il negozio di Rossana Orlandi crea tanto desiderio, pur senza vetrine; così come Corso Como 10. Il nostro progetto da fuori non si capisce che cos’è: lo si scopre entrando dentro. In via Santa Cecilia si accede da un immobile degli anni ’50-’60 con un’architettura modesta, ma gli spazi interni sono straordinari: c’è un tunnel di discesa sotterraneo, illuminato in maniera scenografica, che arriva in una piazzetta dove c’è un cavedio con giardino. Lì c’è un negozio sotterraneo ma luminoso con tante vetrine; poi si accede al piano superiore, che era un ex opificio farmaceutico, una specie di loft alto 4,30 m con finestroni industriali. È stato anche la sede di Dolce&Gabbana, che è nata e vissuta lì per 30 anni: ha una bellissima storia di successo, un po’ come in via Solferino, dove c’era Romeo Gigli prima che entrasse Boffi.
L.D.P. Lo showroom è pensato per proporre un nuovo modo di vendere l’arredo: non solo mobili, ma tutto quello che trasforma una casa in una ‘casa DePadova’ con proposte che spaziano dall’arredo alle finiture interne, ai complementi. Proporremo ai nostri clienti una casa di gusto e di stile, come sapeva fare mia madre: la sensazione di gusto milanese, elegante, chic, con un mix di oggetti classici, moderni, iconici o essenziali come i mobili degli Shakers.
Avete già un’idea di quelli che possono essere gli apporti dei designer?
L.D.P. Abbiamo progetti a tamburo battente; certamente lavoreremo con Piero Lissoni, che darà un contributo molto importante. Lissoni in particolare potrà fare una rilettura molto corretta di certi classici di De Padova attualizzandoli; operazione che ci sta a cuore perché alcuni nostri pezzi hanno più di vent’anni. Sono pezzi che noi vendiamo molto bene ma che possono essere venduti ancora meglio, tenendo conto delle dinamiche di mercato nuove.
R.G. Ci saranno tutti i nomi storici di De Padova fino ai designer che recentemente hanno collaborato con noi, da Patricia Urquiola a Patrick Norguet, da Philippe Nigro a Nendo.
Qual è la ricetta per l’evoluzione del Made in Italy nel settore del design?
L.D.P. Ognuno ha la propria ricetta; ora ci sono fondi di investimento che comprano aziende importanti, ma non necessariamente le mettono insieme; noi andiamo a braccetto, e questo crea la differenza.
R.G. Quelle italiane sono piccole aziende, e la scommessa è come diventare aziende più grosse senza perdere in creatività e capacità di attrazione. Nel caso nostro intendiamo arrivare oltre i cento milioni, perché questa è una soglia che permette di essere sufficientemente aggressivi per la distribuzione internazionale. Nel mondo imprenditoriale italiano dell’arredo di design c’è una trasformazione in atto: è un sistema industriale molto stressato da cinque o sei anni di crisi, in cui la scarsità della distribuzione, la crisi del modello stesso di impresa e un passaggio generazionale difficile hanno portato dei cambiamenti radicali. Aziende storiche si fanno avvicinare da fondi di investimento che prima non avevano trovato sbocco. Siamo in un momento chiave per il design italiano: nei prossimi tre o quattro anni si giocheranno le partite principali.
intervista di Gilda Bojardi – a cura di Antonella Galli