Il nome Garage deriva dalla sede originale della Galleria d’Arte diretta con passione da Dasha Zhukova e ricavata, appunto, in un garage per autobus recuperato, progettato nel 1926 da Konstantin Melnikov, uno dei protagonisti indiscussi dell’avanguardia architettonica sovietica.

Il nuovo Garage Museum apre ad un pubblico più vasto le porte delle collezioni di arte contemporanea russa e della prima sede riprende non solo il nome, ma soprattutto l’idea di riuso del manufatto urbano, anche se, in questo caso, il padiglione in calcestruzzo prefabbricato, che ospitava il ristorante Vremenda Goda (“stagioni dell’anno”), non appartiene alla schiera degli ‘edifici d’autore’ della storia dell’Unione Sovietica.

Tuttavia ben rappresenta l’edilizia del Paese anni 60, proiettata in quel periodo verso la ‘prefabbricazione pesante’ in calcestruzzo armato. Rem Koolhaas in alcuni ultimi progetti per spazi privati dedicati all’arte contemporanea, come ad esempio la Fondazione Prada a Milano, sta lavorando con intelligenza e caparbietà concettuale sul tema del riuso e della trasformazione di spazi industriali dismessi o, come in questo caso, di architetture anonime, ma degne di attenzione.

In relazione a questo ultimo progetto moscovita afferma: “In un momento storico in cui la conservazione appare come un tema sempre più importante nell’approccio alle città esistenti, il periodo compreso tra il 1960 e il 1980 è, a livello planetario, considerato come un’eccezione. Possiamo immaginare di recuperare edifici della fine Ottocento o del primo modernismo, ma l’architettura più anonima e impersonale che si è diffusa dopo la seconda guerra mondiale ha pochi fans e quasi nessun sostenitore.

Per queste ragioni siamo stati molto contenti di recuperare a livello architettonico la ‘rovina’ del ristorante Vremenda Goda e di trasformarla nella nuova sede museale di Garage. Siamo stati in grado, insieme alla committenza e al suo team, di esplorare le qualità della generosità degli spazi originari, la dimensione, l’apertura e la trasparenza di questo relitto architettonico sovietico e di trovare nuovi usi e nuove interpretazioni.

Il confronto con questa architettura anonima ci ha anche permesso di evitare i processi di esagerazione rappresentativa, di figura e scala, che sta diventando uno degli aspetti dei nuovi spazi per l’arte contemporanea”.

Assumendo quindi la costruzione esistente come una preesistenza degna di attenzione e instaurando con essa un processo dialettico di confronto e di trasformazione, Koolhaas, con Ekaterina Golovatyuk, ha conservato a livello progettuale e compositivo la figura del volume originale, un parallelepipedo lungo e stretto, rivestendo l’esterno con una pelle continua di policarbonato che ne sottolinea la dimensione astratta.

Una soluzione a livello materico certo non preziosa, e adottata poiché in un primo tempo la sede di Garage nel Gorky Park doveva essere provvisoria, ma che è stata mantenuta una volta confermato l’edificio abbandonato come sito del museo.

La nuova pelle architettonica di policarbonato è staccata dal suolo per poco più di due metri in modo da collegare visivamente su tutti i lati l’interno del museo con il parco che lo accoglie. L’ingresso e la hall a tutt’altezza sono invece segnati da due brani di facciata (metri 9 x 11), prospicienti sui due lati opposti, che scorrono in verticale, superando il colmo della copertura piana.

Superfici scorrevoli che ricordano la figura dei portoni industriali, disegnando una volta aperti un nuovo convincente profilo di sagoma dell’architettura nel suo insieme, rivelando allo stesso tempo lo spazio interno che può accogliere sculture di grande dimensione.

La superficie del museo, di circa 5.200 metri quadrati distribuiti su vari livelli, somma gallerie espositive su due piani, un centro ricreativo per bambini, un bar e una cafeteria, una sala con tavoli da ping-pong, un auditorium per concerti e convegni e una nuova terrazza panoramica ricavata sulla copertura. Sono state conservate le finiture sovietiche originali come i rivestimenti parietali di mattone, le decorazioni in ceramica verde e il grande mosaico di Realismo Socialista dedicato all’autunno.

Accanto alla conservazione delle tracce preesistenti e dell’aspetto pubblico della generosità degli spazi, sono stati inseriti dei nuovi dispositivi flessibili legati alle diverse necessità di allestimento, come le pareti bianche incernierate al soffitto che possono essere utilizzate, cambiando il carattere degli interni, se necessario per la collocazione di particolari opere d’arte.

Un progetto di recupero e trasformazione che, come quello milanese, indica in fondo nuove strade metodologiche per lavorare sul costruito, affiancando alla conservazione il valore del segno contemporaneo. Nella convinzione che il passato non è mai un fossile, ma un’eredità con cui confrontarsi, tra memoria e innovazione.

 

foto di courtesy OMA – testo di Matteo Vercelloni