Nella nostra epoca è il paradigma della rete a definire la forma della cultura. Rete intesa non solo come infrastruttura telematica ma, soprattutto, come flusso di senso ‘ramificato’ che innerva l’agire degli attori culturali.

All’interno di questo nuovo paradigma il tempo di dispiegamento dell’azione progettuale non ha più la forma di una sequenza lineare, e somiglia piuttosto a un pullulare di eventi diffusi, non cumulabili, in perenne reazione l’uno sull’altro.

La risultante è un presente continuo che, non più delimitato da un passato posto ‘prima’ e un futuro posto ‘dopo’, si allarga a rete, mettendo in connessione tutto e il contrario di tutto. Risiede qui la questione filosofica centrale della cultura del progetto contemporanea. Da che parte indirizzare, infatti, l’azione progettuale in un contesto che, come l’universo, si espande in ogni direzione senza mai uscire da se stesso?

Ma se l’impasse è epocale, epocale è anche la misura di quella che sembra esserne oggi la soluzione. È infatti lo stesso collasso della temporalità progettuale che, se da una parte si schiaccia sulla dilatazione orizzontale perdendo sviluppo verticale e profondità, d’altra risulta, proprio per questo, perfettamente idoneo a un diverso tipo di evoluzione, che non ha più la forma di un avanzamento lineare ma di una ‘crescita’ arborescente alimentata dalla condivisione reticolare di idee, progetti, pezzi di percorso da fare insieme per poi disperdersi lungo traiettorie divergenti.

Dagli atti minuti di pubblicazione di un post, alle grandi sinergie occasionate da eventi specifici (si pensi all’importanza del project management), fino alle azioni improntate alla nuova sostenibilità smart, social, ciclabile e riciclabile, le azioni di condivisione costituiscono il vero sistema nervoso della cultura della rete.

Ed ecco allora che un’azienda come Lago, tra le più consapevoli sul fronte della sostenibilità (anche culturale), si sta molto occupando di spazi dedicati al coworking, luoghi di condivisione ‘terzi’ fra la casa e il lavoro che occorre ripensare come zone di transito semi-permanente in cui allestire situazioni di benessere agile e sereno, connesso e operativo.

Perché è proprio in simili crogioli allestiti appositamente per favorire la condivisione di forze e debolezze che il presente – non più rimpiazzabile da un futuro ‘dato’ – può crescere sotto forma di germogliare diffuso di boccioli progettuali, la cui sommatoria, ancorché non riassumibile in una totalità unica, alimenta comunque lo stato di trasformazione continua della realtà: la sua apertura verso quello che, se non un vero e proprio ‘futuro’, non è comunque nemmeno esattamente un ‘presente’.

Significativa, a tale proposito, l’attenzione di Francesco Morace e del suo Future Concept Lab al tema della crescita, cui è stato dedicato di recente anche un festival. Né è un caso il crescente investimento del design in modelli di progettazione condivisa derivati da una distribuzione orizzontale delle risorse invece che da un aristocratico isolamento del genio creativo.

È questo il caso del ‘made in Italy 2.0’ di brand come Internoitaliano e Ilide, fabbriche diffuse coincidenti con la stessa nella rete di relazioni tra artigiani e designer che esse abilitano, intesi come risorse distribuite non secondo il modello della filiera ma secondo quello della rete. Perché parlare di crescita (orizzontale e reticolare) invece che di sviluppo (verticale e lineare) vuol dire infine parlare di pluralità invece che di individualità, di sinergie invece che di energie, di collaborazioni attivate su progetti (e quindi costitutivamente ‘proiettate in avanti’) invece che di processi statici tenuti forzatamente in funzione.

Tutto ciò rappresenta una grossa sfida per il design, che, in particolare nel caso italiano, ha sempre contrapposto la qualità alla quantità, ma che, d’altra parte, ha sempre prestato massima attenzione all’evoluzione della cultura e della società. E ciò che la cultura e la società stanno dicendo oggi è la transizione verso modalità di condivisione e generazione partecipata del senso secondo quel modello 2.0 in cui prodotti e linguaggi non sono più semplicemente ‘offerti’ alle persone ma generati insieme a loro, fatti germogliare dalla condivisione orizzontale di entusiasmi reciprocamente coinvolti nel tenere insieme quella dimensione di senso che nel design vive e che il design fa vivere.

di Stefano Caggiano