Abbiamo incontrato Diébédo Francis Kéré al Campus Vitra di Weil am Rhein, in Germania dove è stato presentato un suo innovativo store per la vendita al dettaglio. Ma è dell’Africa che ha voluto parlarci. Lì, infatti, è nato (a Gando, un villaggio di 2.500 anime sperduto nella Savana del Burkina Faso) e lì ritorna, appena può, per condividere con la sua gente tutto quello che ha imparato in Europa. Dove è ormai un progettista affermato.
Architetto perché ha deciso di concentrare i suoi sforzi soprattutto nel continente africano e in progetti sociali?
L’Africa ha bisogno di noi molto più che l’Europa. E poi è il mio Paese, il luogo dove sono nato. Nel mio villaggio non c’era nulla, né scuole, strutture sanitarie, centri sociali. Grazie a una borsa di studio, ho potuto studiare in Europa, a Berlino, e diventare architetto. Ma fin dall’inizio ho pensato che avrei dedicato gran parte della mia attività professionale a realizzare nei luoghi della mia infanzia quelle infrastrutture di cui io stesso avevo sentito la mancanza. Pensi che già da studente avevo fondato un’associazione no profit, ‘Schlbausteine fur Gando’ (Bricks for Gando, ndr), per raccogliere fondi per il mio villaggio. L’obiettivo, allora come oggi, è migliorare la qualità di vita della mia gente. Costruire opere utili, ma anche belle e di qualità: che poi è la vera, unica, semplice ragione della mia professione.
In generale, ritiene che l’architettura debba ritrovare una sua ‘umanità’ ?
Oggi è difficile definire l’architettura a misura d’uomo, perché molto volte è solo fine a sé stessa, troppo esclusiva, anche per i costi. Mettersi a ‘servizio delle persone’ non vuol dire produrre edifici di lusso dove abitare, ma soddisfare le esigenze di chi vi abita. In ogni caso guardiamo i fatti. Nel mondo ci sono persone abituate a standard più elevati e altre che vivono con molto meno: la cosa più importante è trovare un giusto equilibrio senza mai dimenticare che dovunque si può fare un’architettura ‘utile’, in grado di affrontare e risolvere i problemi futuri del costruire …
Come per esempio quelli legati alle problematiche ambientali?
Certo. Quando noi pensiamo al futuro, in realtà stiamo pensando a come poter avere una vita di qualità. Questo è il nostro obbiettivo. E per raggiungerlo, secondo il mio modo di pensare – ma dovrebbe essere quello di tutti – il punto centrale è rispettare l’ambiente, averne cura, che per noi progettisti significa concentrarsi su dove si costruisce, e su come lo si fa. In altre parole non dobbiamo solo parlare di sostenibilità in modo astratto, ma modificare in modo concreto il nostro modo di vivere, di progettare, di realizzare edifici perché le risorse del nostro pianeta stanno diminuendo e dobbiamo farne un uso parsimonioso. Dovunque: nei Paesi più fortunati dal punto di vista economico e in quelli più poveri perché il destino è comune. C’è bisogno di un approccio olistico da parte dell’architettura, che coinvolga ogni aspetto a 360 gradi: si parte dall’uomo per arrivare all’ambiente, allo studio del luogo, delle sue condizioni climatiche, delle sue risorse naturali e culturali…
Cosa significa concretamente?
Quando vado a fare un sopralluogo per un nuovo progetto la prima cosa che faccio è osservare il sito: l’obiettivo è scoprire quello che la natura può offrire – per esempio, per quanto riguarda i materiali -, poi studiarne le condizioni climatiche, quindi analizzare il potenziale delle comunità locali – il livello dell’artigianato o della manodopera, tanto per citare due aspetti importanti. E’ tutta una questione di risorse. Non potrei mai andare in Africa, prendere l’argilla, portarla a Berlino per costruire una casa e poi dire che ho realizzato un progetto sostenibile. Sicuramente l’argilla è un materiale naturale, ecologico, ma è perfetto in Africa: qui, a Berlino, bisogna trovare altro. Ecco, per me questo è un modo di fare architettura responsabile…
Lei progetta sia in Europa sia in Africa. Qual è la differenza?
In Africa, dove c’è bisogno di tutto e non si hanno molte disponibilità economiche, si impara a non sprecare nulla e a sfruttare quello che si ha. Non è impossibile usare anche in Europa questo tipo di approccio, ma naturalmente va adattato al contesto. Ad esempio, nel progetto che ho realizzato al Campus Vitra, in Germania, ho usato legno lamellare grezzo, un materiale ‘povero’, naturale, che in loco era facilmente reperibile, e quindi sostenibile. Non si può pensare che dal momento che il committente è Vitra dobbiamo usare materiali necessariamente costosi! Si può egualmente arrivare a risultati che ‘stupiscono’ grazie a scelte tecnologiche sofisticate, lavorazioni eccellenti e soluzioni costruttive d’alta qualità. Dall’Africa arriva poi altro importante insegnamento: imparare a condividere il lavoro.
Nei progetti che ho realizzato nel mio villaggio, in Africa, ho coinvolto tutti gli abitanti: si è creato un processo collaborativo che ha reso la comunità orgogliosa, così emotivamente coinvolta da assicurare la riuscita stessa del progetto. Per concludere: quando lavori in Africa hai la sensazione di essere utile alla collettività, ed è una gratificazione bellissima che ti riempie di energia.
Quando torni in Occidente sai di avere a portata grandi risorse economiche e tecnologiche, e anche questo ti dà molta energia. Sono due mondi differenti, ancora lontani purtroppo, ma che tuttavia condividono un unico, importante, strategico obiettivo: far star meglio le persone.
testo di Laura Ragazzola – foto di Erik-Jan Ouwerkerk, Kéré Architecture