“Cosa mi ha convinto ad accettare questo incarico? La promessa di una grande libertà”. Ron Gilad è un poeta del design e delle forme, dall’animo gentile e pacato, ma ha le idee chiare e decise.

Non usa mezze parole quando racconta le ragioni e le finalità di un progetto che non ha paura di mettere in discussione il percorso di un marchio icona del design italiano, quale è Danese Milano, di cui è da poco diventato il nuovo direttore artistico.

Tante sono le affinità tra il modo di pensare del designer israeliano e l’approccio sperimentale del brand fondato nel 1957 da Bruno Danese e Jacqueline Vodoz, che Gilad ha scelto di inaugurare il nuovo corso con una mostra dove i progetti e i simboli del suo lavoro si relazionano, quasi senza soluzione di continuità, con quelli di Enzo Mari e Bruno Munari, storici protagonisti del catalogo Danese.

Lo abbiamo incontrato nella sede milanese dell’azienda in via Canova, che il progettista ha rivoluzionato per farne parte integrante dell’esposizione inaugurata durante la design week di aprile, e che oggi considera, di fatto, il suo studio italiano, il suo nuovo laboratorio dedicato all’esplorazione della vita quotidiana.

“Il progetto che mi ha affidato Carlotta de Bevilacqua (presidente di Danese, ndr) vuole focalizzare il marchio sul suo valore principale, la cultura. Il primo passo è stato eliminare tutto ciò che si era accumulato negli anni e che poteva creare confusione. Ho tenuto solo quello che, a mio parere, esprimeva l’identità del brand e rappresentava un aspetto specifico della sua ricerca culturale. Ripartiamo quasi da zero, dalla memoria del passato. E indaghiamo le modalità per costruire il futuro. Senza rimanere ancorati alla storia, ovviamente.

Ammiro ciò che è stato prodotto negli anni ’50, ’60, ’70, ma non ho intenzione di metterlo su un piedistallo e farne una moda vintage. Ne ho rispetto, ma non ho paura di sorriderne, di andare oltre. La stessa scelta di ‘sfoltimento’ l’ho adottata nei confronti di me stesso.

Sono tornato a guardare alla mia memoria, ai prototipi e ai progetti del passato, a cose che avevo dimenticato, a quelle che avevo fatto o anche solo iniziato. Ho individuato una decina di progetti, il più vecchio dei quali risale al 1999, e ho deciso di iniziare con questi il mio nuovo percorso in Danese.”

I tuoi progetti nascono da una sperimentazione linguistica più vicina al mondo dell’arte che a quello dell’industrial design. Pensi che sia questo ad accomunare il tuo pensiero alla storia di Danese?
Credo che il legame sia la libertà. La libertà di creare senza avere in testa un obiettivo specifico. Oltre al prodotto finale – che ovviamente deve essere di qualità – c’è posto anche per il viaggio che ci conduce a esso. Nel dna di Danese sono presenti tante componenti espressive che includono la stampa artistica, l’animazione, il disegno, la fotografia… La mia idea è riportare questo marchio al suo ruolo originale di laboratorio di ricerca all’interno del quale i designer avevano la possibilità di esplorare la funzione partendo da punti di vista diversi.

Il design Danese è nato dalla combinazione tra arte, artigianato e produzione industriale. Credi che questa formula possa funzionare ancora oggi?
Sì, perché l’evoluzione della tecnologia ha eliminato molte funzioni. La collezione storica di Danese era composta da accessori per ufficio, come il fermacarte e il portapenne, che oggi non esistono quasi più. Qualcosa ci obbliga a non riproporre queste tipologie. Tuttavia, i nostri fondamentali bisogni domestici sono sempre gli stessi; anche le proporzioni e le funzioni legate agli oggetti d’uso quotidiano sono rimaste invariate. Credo che la missione di Danese sia continuare a sperimentare in relazione a queste necessità primarie degli esseri umani.

Il tuo primo intervento da art director di Danese è stato aggiungere due piccoli occhietti nel logo del marchio. Come è nata questa scelta? Cosa intendi esprimere con questa operazione?
Quando mi hanno offerto questo ruolo ho posto una condizione: totale libertà. Compresa quella di intervenire sul logo. Rappresenta le iniziali di Bruno Danese, il fondatore, ma non è di immediata comprensione. Sembra quasi un simbolo africano. Appena l’ho osservato mi ha ricordato un volto, a cui mancavano però due occhi. Per me era anche un modo per dare nuova vita al marchio. Con grande sorpresa, Carlotta de Bevilacqua ha subito accettato la mia proposta.

I tuoi programmi prevedono, in un prossimo futuro, la collaborazione con altri designer?
L’idea è coinvolgere pochi progettisti in un progetto di ricerca non necessariamente focalizzato su dei prodotti, capace però di scrivere una nuova storia all’interno dell’azienda. Non credo che questo possa avvenire con il contributo di tante singole individualità diverse.

Suppongo che ti troverai a trascorrere molto più tempo a Milano.
Si certo. La cosa mi fa piacere, anche se soffro l’inverno milanese. Sono cresciuto a sigarette e luce naturale, questa è la realtà. Quando sono nel mio studio di Tel Aviv, mi sposto seguendo il cammino del sole nell’arco della giornata. Comincio nel giardino pensando a come potrebbe essere la giornata, poi, quando entra la luce, passo alla cucina e successivamente ad altri ambienti. La luce naturale mi infonde calma. Per questo mi risulta difficile vivere a Milano durante l’inverno. Quando comincio a non sentirmi bene, prendo l’aereo e torno a Tel Aviv.

Professionalmente parlando, come trovi l’atmosfera milanese?
Penso che la Milano del design sia fatta di un fantastico equilibrio tra umanità e business. Con tutte le persone con cui ho collaborato sinora, ho instaurato un rapporto umano che va oltre quello squisitamente professionale. Le relazioni che sono riuscito a creare in Italia sono molto più profonde di quelle che ho stabilito in altri luoghi; mi fanno sentire ben voluto e favoriscono un senso di appartenenza, che percepisco nonostante sia straniero. Sono sensazioni molto speciali, che mi legano a questo posto e a questa cultura.

Qual è l’idea della mostra?
La mostra si compone di due parti: da una parte i miei progetti, dall’altra quelli del catalogo Danese che ho selezionato e che presento in tre stanze. Ho chiesto all’azienda di utilizzare più spazi della loro sede per mostrare non solo il mio lavoro, ma anche le opere che sono state dimenticate nel tempo. Questi ambienti non si distinguono per un tema specifico, né si capisce quale sia la loro destinazione d’uso: ufficio, sala da pranzo…
Semplicemente, sono spazi che presentano ‘frammenti’ della storia del marchio. La stanza espositiva principale è invece destinata a mostrare i prodotti nuovi e la ricerca da cui sono nati, il processo mentale che li ha generati.
Al centro gli oggetti sono esposti su elementi che ripropongono in formato extralarge i posacenere Cubo di Bruno Munari; alle pareti sono invece presentati gli elementi e le fasi del loro iter ideativo. L’idea che voglio comunicare è che stiamo cominciando a costruire il futuro recuperando il passato e che c’è un collegamento molto stretto tra l’una e l’altra dimensione.
Faccio un esempio: tra i miei nuovi progetti c’è una serie di porta candele che sviluppano un lavoro da me realizzato nel 2006 per una mostra a Chicago. Questi oggetti nascono una riflessione sul rapporto tra l’oggetto e la superficie che lo sostiene. Una riflessione concettuale che ho voluto riferire anche ai progetti di Enzo Mari, mettendoli in relazione diretta con i miei e creando tra loro un dialogo esplicito.
Allo stesso modo, ho preso i simboli ‘congelati’ di Mari, come gli animali della Serie della Natura, e li ho portati in vita attraverso una piccola animazione. Così come alcuni pezzi della collezione di Bruno Munari che ho trasformato in ironici ritratti. Ho fatto dell’ironia uno strumento per rivitalizzare il passato e metterlo in collegamento diretto con il presente.

di Maddalena Padovani

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Ron Gilad in un ritratto di Miro Zagnoli.
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Lo storico Cubo di Bruno Munari, in formato extra large, fa da espositore ai nuovi progetti firmati Gilad che entrano nel catalogo del marchio nell'installazione “Fragments of life” ideata da Ron Gilad per Danese all'interno della sede milanese dell'azienda, in occasione della design week dello scorso aprile.
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In primo piano, Fruit Bowl n°9, design Ron Gilad, 2017 (portafrutta; legno di faggio). Appesi alla parete: prototipi di ricerca per Fruit Bowl n°9; a destra, Elliott, design Elliott Erwitt, 2013 (bastone da passeggio; legno di faggio laccato, gomma, metallo cromato, plastica cromata).
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Pisa, Torcello, Venezia, portacandele in legno di faggio e alluminio, disegnati da Ron Gilad nel 2006 che oggi fanno parte del catalogo Danese.
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Centrotavola Oh Signore!, design Ron Gilad, 2017, in ferro verniciato.
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In primo piano, Fruit Bowl n° 5.5, design Ron Gilad, 2017 (portafrutta; legno ramino, metallo verniciato e cromato); sul fondo, Uno, la Mela, design Enzo Mari, 1963 (stampa serigrafica).