Nato a Okinawa, in Giappone, ma milanese d’adozione da quando aveva 19 anni, Kensaku Oshiro sembra quasi non avere risposte quando gli si chiede se si sente più giapponese o italiano. Ammette di avere una connaturata propensione a togliere e a semplificare, ereditata dalla sua cultura di origine, ma l’attitudine a fare del progetto un costante lavoro di ricerca sotteso all’innovazione, quella no, quella è tutta, intrinsecamente e tipicamente, italiana.
L’incontro con il Bel Paese avviene nel 1996, non per caso ma per pura scelta: Kensaku vuole fare il designer e vuole farlo proprio come si fa in Italia, per cui si iscrive alla Scuola Politecnica di Design di Milano, pensando di fare ritorno in Giappone dopo un paio d’anni.
Terminati gli studi decide di fermarsi ancora un poco, per fare esperienza, e poi un altro po’, perché desidera imparare qualcos’altro ancora. Pian piano Oshiro si rende conto che il design, per lui, è una vera e propria passione. Se ne accorge frequentando inizialmente lo studio di Giovanni Levanti; ne ha la certezza collaborando successivamente con altri designer, tra i quali ha un ruolo determinante Piero Lissoni con cui lavora per otto anni.
Per arrivare a Edward Barber e Jay Osgerby, che lo convincono a trasferirsi a Londra nel 2012. Infine, nel 2015, la grande decisione: intraprendere la professione da solista. Per farlo torna a Milano e nel giro di pochi mesi sviluppa e realizza, per il Salone del mobile 2016, una serie di progetti che regge il confronto con quelle dei più affermati designer: una collezione di sedute per Poltrona Frau, un tavolo per Kristalia, una famiglia di tavolini per De Padova, una poltrona imbottita per Gan.
Un debutto alla grande, che mette in evidenza una matura personalità progettuale dove confluisce la razionale precisione della scuola italiana e, allo stesso tempo, una poetica sensibilità per le forme organiche di chiara derivazione giapponese.
Ne è un esempio il tavolo Hole per Kristalia, caratterizzato da un’originale base in lamiera di metallo che al suo interno presenta un grande foro ovale. “L’idea” spiega il designer “era portare nell’ambiente domestico sensazioni ed elementi che solitamente si trovano in natura. Mi sono ispirato alle forme scultoree, quasi monumentali, di rocce e pietre modellate dal vento. Per esaltarne la bellezza, ho volutamente lavorato sul contrasto tra linee nette, rigorose, e linee organiche, morbide e sinuose”.
Nel caso degli elementi imbottiti Leplì (uno sgabello, una panca e un pouf), l’ispirazione ha una connotazione più antropomorfica. “Ho immaginato Poltrona Frau come una signora molto elegante, vestita di bianco, con una piccola cintura che ne sottolinea il punto vita”. Da qui le linee flessuose che in particolar modo connotano lo sgabello e che rimandano a una silhouette femminile, volutamente proposta in monocolore per dare risalto a pieghe, impunture e dettagli sartoriali che impreziosiscono il rivestimento in pelle. “Mi piace l’idea dell’ombra che disegna, con silenzio e discrezione. Per questo penso quasi sempre a oggetti monocromatici e gioco sui piccoli dettagli che possono animare e arricchire le superfici. In questo credo di essere molto giapponese”.
“Nel 2015”, continua Oshiro, “ho fatto il mio primo ritorno professionale a Tokyo, organizzando una mostra personale durante la design week. Ho avuto un grande riscontro, tanto che ho ricevuto molte offerte di lavoro in Giappone. Erano ben pagate, ma inevitabilmente avrei dovuto scendere a dei compromessi con la visione di ricerca che avevo sviluppato sino a quel momento. Alla fine ho rifiutato e sono tornato in Italia, perché ho capito che il design che mi appassiona è quello all’italiana”.
Di quest’ultimo ama soprattutto il rapporto di dialogo e scambio continuo che si instaura con le aziende, ognuna contraddistinta da una storia e un’identità diversa. “Le aziende del design italiano”, conclude Kensaku, “altro non sono che gli imprenditori stessi, persone disposte ad assumersi dei rischi e a investire nei progetti, perché credono nell’innovazione e hanno voglia di innovare. Una condizione che non si trova in Giappone, ma neppure in altri Paesi del mondo”.
Testo di Maddalena Padovani