Incontriamo Kuma San a Bolzano, qualche mese fa, in occasione della sua ‘opening lecture’ al seminario internazionale organizzato dall’Università di Trento in collaborazione con l’Università di Bolzano e KlimaHouse Fair.
Il tema affrontato – ‘Resilient Ecological Design Strategies’ recita il titolo del convegno – ha voluto fare il punto su sostenibilità e nuovi percorsi progettuali per riflettere sui possibili sistemi di relazione fra architettura e natura.
Un campo di ricerca dove Kengo Kuma è maestro, come dimostrano i suoi numerosi e visionari edifici-paesaggio. Emblematico da questo punto di vista uno dei suoi ultimi lavori (in queste pagine): il China Academy of Arts’ Folk Art Museum, a Hangzhou, nella Cina Meridionale.
Ci spiega Kuma: “Il sito predisposto per la realizzazione del nuovo museo era un’ex piantagione di tè, che si allungava sul pendio di una bellissima collina. Non volevamo, però, dare l’idea di un edificio nuovo, recentemente costruito, ma, viceversa, l’intento del mio studio era quello di realizzare una struttura che si inserisse nel paesaggio, diventandone parte essenziale.
Così abbiamo adagiato l’edificio sulla collina”, continua Kuma, “ricalcando le curve naturali del pendio per poi ‘diffondendersi’ nel paesaggio circostante”. Perché in questo suo ultimo esperimento di architettura eco-naturale, l’architetto giapponese ha voluto salvaguardare non solo l’ambiente ma anche una comunità di individui e la sua la tradizione costruttiva. Come? Trasformando il museo in una sorta di villaggio, con tante ‘casette’ che punteggiano il verde della collina.
Ma Kuma precisa: “A me non interessa solo l’aspetto formale del rapporto luogo-edificio, ma la capacità dell’architettura di farsi essa stessa parte di una forma o di un contesto”. Che in altre parole significa ‘assorbire’ di un luogo ogni cosa: tradizioni, usi, materiali, ma anche profumi, sapori, colori…
Si tratta di ‘comprendere’ il sito in modo profondo, per innescare una simbiosi fra spazio abitato e spazio naturale; quindi, “cambiare ‘pelle’ in relazione all’ambiente ogni qual volta sia necessario, traducendo l’architettura in spazi di vita e di scambio”, chiarisce Kuma che aggiunge: “Qui, nel Folk Art Museum, per risolvere la complessità topografica del territorio abbiamo creato tante unità, che disegnano una rete di parallelogrammi, ciascuno con un tetto individuale, che evoca l’idea di un villaggio tradizionale cinese”.
Non solo: il recupero di centinaia di tegole provenienti da siti abbandonati e riutilizzate per la copertura dei nuovi tetti e per le schermature perimetrali (regolano la luce solare degli spazi espositivi interni) rivela anche la vocazione sostenibile del progetto.
Infatti, in un’ottica di recupero dei materiali locali e naturali, il nuovo edificio si lega intimamente con gli elementi del luogo, proponendo finiture, aperture, chiusure, superfici esterne che ‘giocano’ con l’ambiente e con le sue mutazioni.
Ma soprattutto l’Art Folk Museum ci parla di quella ‘pazienza’, tutta giapponese, ad ascoltare e “annusare la natura”– per dirla con le parole del grande progettista – aiutando l’architettura a fondersi con essa.
Foto di Eiichi Kano – Testo di Laura Ragazzola