Newyorkese, classe 1961, una vita sempre in viaggio fra lo studio di Caracas, quello di New York e la sede di San Paolo, fra la cattedra alla Columbia University e le lezioni al Politecnico di Zurigo: un impegno faticoso (ma pluripremiato), che si concentra contemporaneamente su due fronti: quello professionale di architetto e quello scientifico/didattico di professore universitario.
Parliamo di Alfredo Brillembourg, fondatore, insieme al socio austriaco Hubert Klumper, dello studio multidisciplinare Urban-Think Tank: il suo team, che annovera architetti ma anche ingegnerei, pianificatori, sociologi ed esperti nell’ambito della comunicazione, dal 1993 si spende per riqualificare i distretti più poveri delle megalopoli internazionali.
Architetto, i contributi innovativi del suo ‘social design’ in contesti urbani degradati le è valso il Leone d’Oro all’ultima Biennale dell’Architettura di Venezia. Lei crede nel ruolo sociale e civile dell’architetto?
Certo. È proprio lì il futuro dell’architettura, risiede, cioè nella volontà di farsi coinvolgere, di partecipare in modo attivo alla vita della propria città per conoscerla, entrarci dentro ‘fisicamente’. Qualunque progetto non ha valore se non è sensibile, partecipato, attento al contesto sociale e politico in cui è inserito…
… del resto il nome-slogan del suo studio ben riassume questo pensiero.
Lo abbiamo chiamato Urban Think-Tank, serbatoio di pensiero urbano, perché vogliamo pensare alla città, concentrarci sul contesto urbano, per sviluppare nuove strategie abitative. L’obiettivo è affrontare in modo concreto il problema degli ‘slum’, cioè pensare in modo pragmataico e senza demagogia, alle periferie delle megalopoli internazionali, abbandonate alla miseria e al caos, a uno sviluppo spontaneo del tutto incontrollato e controllabile. Forse non tutti sanno che le baraccopoli rappresentano la metà delle aree urbane nel mondo.
Quindi è la città il vostro oggetto di intervento?
Si, sempre. Perché costruire una città diversa è possibile: dobbiamo rigenerarla e l’architettura può essere d’aiuto.
In che modo?
Attraverso un nuovo pensiero. La città è una realtà complessa, stratificata, totalizzante, difficile da governare. Tutti gli sforzi che abbiamo fatto nel passato sono falliti e non sono riusciti a migliorare le condizioni di vita delle grandi realtà urbane. Perché? Sono stati guidati da un ‘monopensiero’: l’errore del XX secolo è stato proprio quella di lavorare per comparti definiti, per discipline superspecializzate. Insomma siamo incorsi in una eccessiva parcellizzazione.
Oggi, invece, la parola d’ordine è condivisione. L’architetto deve reinventare la propria professione in vista di un nuovo modo di lavorare collettivo, che sappia cioè coinvolgere discipline differenti: Sociologi, artisti, medici, filosofi, paesaggisti, tutti devono essere uniti dall’interesse comune di trovare e sviluppare una nuova dimensione della città. Per questo il nostro studio è multidisciplinare: vogliamo affrontare i problemi a 360 gradi, per individuare soluzioni innovative ed efficaci in risposta a gravi problemi sociali.
Quindi lei progetta l’emergenza?
Tutti i giorni abbiamo a che fare con l’emergenza, vivendo a lavorando soprattutto a Caracas, dove moltissimi vivono il dramma di non avere una casa e una vita dignitosa. Per questo negli ultimi 15 anni mi sono impegnato per progetti dedicati ai distretti più poveri. Per realizzare scuole, centri di aggregazione, luoghi per la musica, per lo sport, sistemi di trasporto pubblico…
Per esempio?
Nel 2008 abbiamo progettato il ‘Metro Cable’, una sorta di teleferica con 50 cabine, ciascuna di otto persone, che collega il poverissimo ‘barrio’ sulla collina al centro della città: oggi lo si può raggiungere in soli venti minuti contro le due ore e mezzo che servivano a piedi. E sempre a Caracas ci stiamo impegnando per coinvolgere direttamente la popolazione in nuove iniziative di sviluppo sostenibile. Come è successo con il progetto Torre David/Gran Horizonte (è valso allo studio venezuelano il Leone d’Oro della Biennale di Venezia 2012, ndr) che ha trasformato un edificio abbandonato di 45 piani, nel cuore di Caracas, in una nuova nuova casa per 750 famiglie grazie a una riuscita operazione di ‘squatting’ urbano.
Da Caracas a Cape Town: vuole parlarci del suo ultimo progetto?
Empower Shack, è questo il suo nome, nasce nel distretto di Khayelitsha (periferia di Cape Town), uno degli agglomerati urbani con il più alto tasso di crescita demografica: la popolazione, poverissima, raggiunge i 400mila abitanti. Qui vogliamo realizzare 100 ‘shack’ (da capanna) entro il 2016: si tratta di unità abitative economiche (ciascuna costa circa 6.000 euro), innovative dal punto di vista costruttivo e sostenibili per la scelta dei materiali, le modalità prefabbricate di realizzazione e i consumi energetici (dispone di pannelli solari incorporati).
Vogliamo dimostrare che gli ‘slum’ possono diventare una risorsa per esportare un modello di sviluppo urbano virtuoso, capace di contrastare il disastroso processo con cui stanno crescendo le megalopoli sudafricane: secondo le previsioni delle Nazioni Unite entro il 2020 quasi 1,4 miliardi di persone vivranno in baraccopoli. Appare evidente l’urgenza di individuare soluzioni alternative: fortunatamente abbiamo trovato preziosi collaboratori – come la Onlus Ikhayalami – e, soprattutto, sostenitori visionari; fra tutti, Carlo Traglio (presidente del marchio di gioielli Vhernier, ndr), che ha creduto sin dall’inizio in questo progetto, mettendo a disposizione risorse economiche, organizzative e una sincera passione.
Nato come prototipo nei ‘laboratori’ dell’Istituto Svizzero di Architettura e Design di Zurigo (Brillembourg ne condivide la direzione insieme a Klumper, ndr), il primo Shack è gia stato costruito alle porte di Cape Town e la prima famiglia, felicissima, ne ha già preso possesso. Non resta che condividere questa felicità con tutta la collettività. È la nostra sfida”.
di Laura Ragazzola – foto di Daniel Schwartz/U-TT at ETH



