Dal mercato ai reali bisogni dell’uomo. Aldo Cibic ci spiega come si può studiare l’ambiente da prospettive differenti.
Obiettivo: progettare luoghi di vita dinamici e più gioiosi. Per tutti
Testo di Antonella Boisi
Come si fa a guardare avanti, navigando in mari agitati e non prevedibili, come quelli dei nostri tempi? L’abbiamo chiesto a un gigante del design quale Aldo Cibic, classe 1955, che, nel suo straordinario percorso autodidatta, prima con Memphis ed Ettore Sottsass poi, dalla fine degli anni Ottanta, in proprio, ha sempre accompagnato un lavoro variegato, tra oggetti, interni, architetture, a una stimolante ricerca culturale.
“Non ho risposte precostituite ed eroiche”, dice il designer veneto. “Ma, il nostro presente e la nostra vita sono interessanti proprio perché problematici. Global warming, salvaguardia delle risorse naturali e sostenibilità, migrazioni, disuguaglianze sociali, costi della vita, dell’educazione e della salute, intelligenza artificiale…
Con tutto quello che sta succedendo mi sembrerebbe riduttivo interessarmi soltanto alla bellezza delle cose. Esiste una dimensione di espressione estetica nelle mie corde, talvolta buffa, ora più poetica e delicata, altre esplicitamente gioiosa che accompagna il desiderio di riconoscermi in luoghi gradevoli, dove star bene e di cui conservare memoria. Ma, più di ieri, sento il bisogno di capire come essere parte attiva in un sistema che produca un miglioramento rispetto a condizioni complesse da comprendere”.
Quando è iniziato questo grande sogno?
“Tre anni fa, dopo i sessant’anni, quando ho avuto una fase di ripensamento radicale sul senso del mio design e sulla sua dignità, che mi interessa meno, se non parte dall’innovazione sociale. Mi sentivo frustrato di non essere abbastanza pro-attivo rispetto a quello che avrei dovuto o potuto dare. Mi aveva confortato Alessandro Mendini, ricordandomi il fil rouge che legava tutto quello che avevo fatto fino ad allora a livello cronologico e tipologico. In ogni progetto, a qualsiasi scala, e nella ricerca ho sempre cercato un ritorno emotivo della gioia, della vitalità, della possibilità di un’incompletezza come stimolo a un’appropriazione personale da parte del fruitore”.
Proponiamo, per flash, un resumé di questa condivisione consapevole che diventa interazione con altre vite e altri comportamenti?
“Questa ricerca c’era sicuramente nel progetto Pocket Landscape che riporta l’idea di natura in un tavolo-albero-paesaggio in miniatura (mostra alla galleria Jannone, Milano, 2009); o nell’Elephountain che diventa fontana pubblica (un’installazione del 2013).
C’è stata nel progetto New Stories New Design presentato alla Biennale di Architettura di Venezia del 2004: l’idea di disegnare attività e servizi che incoraggiassero una relazione dinamica tra l’uomo e lo spazio. C’è stata con Microrealities (2004) e con Rethinking Happiness (2010), anch’essi due progetti in mostra alla Biennale di Architettura, che hanno rappresentato un altro step: comprendere le dinamiche dei luoghi collettivi, quali sono gli elementi che ne generano la vitalità”.
Ritornando al presente e alla domanda iniziale, qual è diventata la rotta della sua riflessione?
“Ecco, direi che oggi è il tempo di (In)complete, come è stata battezzata la nuova piattaforma di ricerca sul design: un questionario online che produce informazioni e risposte su questi temi. Nella continuità della mia storia è cambiato il paradigma di riferimento: ho bisogno di capire che cosa pensano le persone normali, l’intelligenza collettiva, rispetto ai grandi problemi che riguardano la vita di tutti noi. Di che cosa sentono il bisogno, che cosa manca, che cosa significa il progresso, qual è l’opportunità del design. Siamo tutti chiamati a essere partecipi. Non soltanto gli specialisti. Non vorrei avere rimpianti domani se mi guardassi indietro”.
Come può in concreto il design diventare un supporto attivo?
“Per ora abbiamo individuato tre macro temi: la natura, l’intelligenza artificiale, i problemi sociali. Incrociando queste ‘coordinate’ e raccogliendo, mediante un questionario dei dati, elaborati e messi a disposizione di tutti, iniziamo a comprendere dove il dente duole”.
In questa sorta di grande inchiesta su vita e design, dove sta il valore del progetto?
“Innanzitutto, nella consapevolezza che non è il gesto del singolo che può trovare delle soluzioni. È necessario adoperare la propria creatività con altri, per farla diventare costruzione. Certe università l’hanno già capito. Proporre, per esempio, un corso di laurea in antropologia e visual, o in filosofia ed economia, significa affermare di essere pronti a recepire che cosa sta succedendo per preparare i giovani ad affrontare temi complessi. Ho un figlio diciottenne: la speranza è che lo studio gli serva per acquisire una capacità critica e intuitiva, oltre che una specializzazione”.
Ci sono però luoghi più ricettivi di altri ai cambiamenti. Nel design Milano lo è stata negli anni Ottanta con Memphis, una storia forte di rottura. Oggi lei trascorre molto tempo a San Francisco. Lo sente come un nuovo epicentro di questa vocazione?
“Non occorre che ricordi io che cosa rappresenti Milano per il design: negli anni ‘80 una nuova generazione di imprenditori, con a disposizione materiali e tecnologie innovativi, ha trovato negli architetti e nel loro approccio umanistico (le scuole di design da noi non esistevano ancora), l’alchimia che ha generato la straordinaria originalità del progetto italiano.
Certe aziende pionieristiche per la loro qualità e versatilità hanno attratto i designer di tutto il mondo. Riconosco, su scala diversa e con altre modalità, delle analogie tra la Milano di allora e San Francisco e la Silicon Valley di oggi.
La coesistenza di incognite da risolvere, la forza economica dell’imprenditoria innovativa e il concentrato di intelligenza che converge da tutte le parti del mondo delineano le caratteristiche e il potenziale per far pensare a San Francisco come al centro di un nuovo Rinascimento. Rispetto a quello che ho fatto in tutti questi anni, credo che oggi sia la Bay area il luogo dove essere testimone e parte attiva, in un progetto collettivo di laboratorio del futuro”.