Foto di Carlo Lavatori
Testo di Maddalena Padovani
64 progettisti ci mettono la faccia (e le idee creative). Per dimostrare che il nuovo design italiano esiste ed è in buona salute. Lo afferma Chiara Alessi in un libro che ne descrive i tratti salienti. Con un obiettivo: sradicare i pregiudizi.
Oggi esiste un design italiano? Non basta il pregiudizio eterologo che da tempo serpeggia tra le fila e le righe di certa critica estera. Ad alimentare l’amletico quesito da qualche tempo si sono messi anche autorevoli esponenti della cultura del progetto nazionale, che, con varie sfumature, hanno espresso la loro perplessità riguardo la forza propositiva (o addirittura l’esistenza) della nuova generazione di creativi nostrani. Invece il design italiano c’è, è vivo e vegeto, aspetta solo l’occasione per esprimersi con progetti e poetiche che, per naturale evoluzione delle cose, non sono più riconducibili a un’unica scuola di pensiero.A sostenerlo è Chiara Alessi, curatrice e critica di design, che con il libro “Dopo gli anni Zero. Il nuovo design italiano”, uscito a inizio anno per i tipi di Laterza, ha voluto tentare una ricognizione del panorama creativo nazionale così come si è configurato tra il Duemila e gli anni Dieci. Un libro che, secondo Alessandro Mendini, autore dell’introduzione, è un atto d’amore nei confronti di una generazione di ‘designer enigmisti’: sono quelli che “secondo i modi eterodossi e marginali del concettualismo”, approcciano il progetto come un rebus da risolvere, chiusi dentro se stessi come monadi che fanno fatica a collegarsi tra loro ma sottendono una grande intelligenza, ovvero la coscienza di qualcosa di nuovo che presto avverrà e che cambierà lo scenario sinora vissuto.

Di queste ‘monadi’ Chiara Alessi descrive i tratti più caratteristici e ricorrenti, arrivando a individuare sei poetiche di riferimento che propone come chiavi di lettura di una contemporaneità non più decifrabile secondo strumenti retorici e datati. La conclusione? Oggi non c’è un solo design italiano ma ci sono tanti design italiani, che per una sera hanno preso il nome, il volto e i prodotti di quasi settanta progettisti convenuti alla presentazione del libro avvenuta lo scorso gennaio a Milano. A questa mostra-evento, volutamente temporanea in quanto rappresentativa di una situazione in continua evoluzione, Interni era presente: per intervistare l’artefice di un’operazione che sicuramente lascerà un segno critico, ma anche per ritrarre i tanti protagonisti di un fenomeno che esiste e pulsa, anche se il suo cuore batte spesso negli spazi più interstiziali e meno appariscenti del progetto italiano.

Come è nata la tua esigenza di analizzare, mappare e ‘generazionalizzare’ il nuovo design italiano?
Innanzitutto c’era un’esigenza di raccogliere e sistematizzare un dibattito che da qualche anno circolava tra riviste, incontri, mostre, blog, cene tra amici; sentivo la necessità di provare a ordinare queste chiacchiere in un discorso, spero, più articolato, con affondi anche fuori dal sistema-design, o che linkassero quel sistema a trasformazioni che investono anche l’ambito economico e culturale, per esempio. E poi, in senso invece più stretto, c’era un bisogno personale, che poi ho riscontrato in altre persone, di provare ad aggiornare gli strumenti di analisi, di ridisegnare cioè uno scenario che fosse più soddisfacente per descrivere l’attualità. Quindi, superando le categorie che erano valide magari per raccontare altri momenti, provando a immaginare una mappa di coordinate, riconoscibili per noi, oggi.

Condividi l’idea che il nuovo design italiano sia condizionato dall’atteggiamento pregiudiziale e dalla vocazione esterofila delle aziende del nostro Paese?
Sì, ma non condivido né la sorpresa (ricordiamo che sono almeno 30 anni che le aziende italiane guardano agli stranieri) né il lamento diffuso e paralizzante. Intanto perché rispetto alla scuderia di quei 20 (a dir tantissimo!) nomi di storiche Fabbriche del Design Italiano, oggi se ne sono affiancate altrettante che con vivacità, entusiasmo, anche ingenuità o approssimazione, ma comunque con interesse, guardano agli italiani. Ampliando il mansionario, spesso coinvolgono i nostri progettisti come art director, consulenti, talent scout, etc., con ruoli che non riguardano solo la produzione di oggetti. Infine, credo che il problema non sia tanto nell’esterofilia ma nel fatto che i giochi vengano fatti sempre dagli stessi nomi (italiani e stranieri), con il risultato che spesso cataloghi di aziende storiche e originariamente identitarie, finiscano per assomigliarsi tutti molto.
Bisogna però precisare: non è che le aziende italiane guardino ai giovani francesi, svedesi, inglesi con più interesse rispetto a quello riservato agli italiani. A parte il caso di qualcuno, la maggior parte di queste aziende non guarda proprio, ha meno propensione al rischio e all’incognita. Quello che succede invece all’estero, questo sì, e che manca in Italia (perché originariamente era proprio tacito compito di quelle aziende) è un servizio istituzionale che promuova i mestieri creativi. Ma questo implicherebbe una revisione di tutto il sistema pubblico mal funzionante, che al momento non mi pare una soluzione credibile.

Credi che iniziative promosse dall’interno, dagli stessi designer, possano sopperire all’azione di scouting prima effettuata dagli imprenditori?
Sì, ci potrebbero essere delle soluzioni autologhe, fatte detonare dagli stessi designer, o eterologhe, con il coinvolgimento di enti, istituzioni, clienti, investitori, musei, gallerie, alternativi. Non conosco altrettanto bene quello che succede all’estero, ma ho l’impressione che tanti designer in quota 40, in Italia, si stiano spendendo oggi per promuovere i giovanissimi e questo è sempre un bene, in controtendenza con quanto è avvenuto con i loro predecessori. Poi ovviamente dipende sempre dal risultato che si vuole raggiungere, se di tipo economico, di comunicazione, di esplorazione. Ai designer stranieri va riconosciuta una capacità di comunicare (con le aziende, con i media, con il pubblico) che i designer italiani tante volte non hanno.

Credi che questo possa essere l’anello debole dei nostri progettisti?
Forse sono ingenua, ma continuo a credere che il savoir faire degli italiani e la cultura che hanno i nostri progettisti all’estero non abbiano eguali. Se mai, è un problema di ‘tendenze’, di ‘mode’, di atteggiamenti – alimentati anche da chi fa il nostro mestiere – per cui se hai un bel nome e produci delle belle immagini, magari con un racconto un po’ elaborato del backstage, più facilmente ti introdurrai in questo sistema. Come dicevamo prima, è anche una questione naturale di esotismo, per cui i designer italiani più in voga in questo momento sono quelli che parlano olandese (i Formafanstasma) o danese (i Gamfratesi), ma già un italiano come Christian Zanzotti, che pure vive in Germania da tanti anni, bravissimo, chi l’ha mai sentito? A me viene il sospetto che questo nome e cognome poco evocativi con la stampa italiana funzionino poco. Comunque, io ne ho intervistati almeno 64 di questi designer italiani e mi è sembrato che avessero tutti qualcosa da dire e che, in molti casi, lo comunicassero anche bene.

Sostieni che, nel suo ruolo multitasking, il designer contemporaneo diventa anche critico. Credi che i nuovi designer italiani abbiano maggiori capacità di autocritica rispetto a quelli delle generazioni precedenti?
No. Per la verità ho l’impressione che l’attitudine al crossover tra le competenze appartenga da sempre al dna dei progettisti italiani e che, se si parla di critica in senso stretto, i risultati più interessanti siano già stati prodotti. Quello che emerge oggi, e che ho provato a verbalizzare nel libro, è invece un assottigliamento dei confini tra critica e comunicazione. Ecco, in quella riduzione di spessore (letterale e metaforico) si inserisce bene il designer narratore che correda il progetto di un paratesto (di parole e immagini) che non solo si sovrappone al prodotto stesso ma a volte proprio lo sostituisce.
Chi sta da questa parte (e prova a lavorare su questo sottile crinale), spesso e volentieri non fa altro che acchiappare e ritradurre dei contenuti già mediaticamente modificati, ma con un ruolo a valle, non più a monte come un tempo. L’autocritica invece è un’altra cosa ancora: è senz’altro vero che forse oggi molti progetti vengono abortiti in nuce, censurati dai designer stessi che conoscono sempre meglio i meccanismi di marketing, comunicazione, mercato, etc. per cui tendono a far uscire dalla bottega solo il ‘best of’, il progetto ripulito di tutta la sua sana e vitale sporcizia e imperfezione. Credo che quest’attitudine alla perfezione formale e del processo un po’ derivi dall’epoca dei social network, in cui tutti mostriamo solo il nostro lato migliore e camuffiamo la verità. Ma la critica deve scovare la verità, o almeno provarci.

La tua curiosità intellettuale e il tuo punto di osservazione privilegiato ti hanno portato a una grande lucidità critica che un po’ si diluisce nella copiosa carrellata di designer che identifichi secondo interessanti ma inevitabilmente opinabili categorie. Perché hai sentito questa necessità? Credi che, nelle logiche del design degli anni Zero, ad emergere alla fine siano i personaggi piuttosto che i progetti?
Il fatto di aver inserito così tanti nomi, corrispondeva innanzitutto a un’esigenza editoriale e cioè dar fondamento anche numerico alla mia tesi, una risposta a chi si chiede se esista il design italiano: citare 100 nomi almeno ti mette il dubbio che qualcosa ci sia. Poi una ragione più teorica che, hai ragione, segue le logiche degli anni Zero: finiti i massimalismi e le utopie degli anni Settanta/Ottanta, ma anche finite le icone, finite le star degli anni Novanta, oggi a prevalere in termini anche di incisività sociale non sono i progetti, ma probabilmente non sono neanche più le loro firme, è un sistema frammentario, sfuggente, eterogeneo che non ho avuto la pretesa tanto di categorizzare ma di provare a fotografare, tanto che la mostra con cui li ho inquadrati appunto durava una sera sola.
Ma non è che se le categorie non esistono più allora si può affermare che è tutto uguale o che non ci sono delle emersioni o delle emergenze nel design. Le poetiche che descrivo nel libro, e che non chiamo mai ‘categorie’ non a caso, nelle intenzioni evidenziano ciascuna una caratteristica del design contemporaneo, che in molti casi convive e include almeno un’altra. Sono queste per me a emergere, anche più dei nomi che ho ‘usato’ a titolo esemplare ed esemplificativo. Ma si tratta di insiemi che si intersecano, si muovono, disegnano incroci e rizomi. Niente di pre-definito o definitivo.

Qual è la differenza sostanziale tra il punto di vista assunto da Andrea Branzi nel 2007 per la mostra “The new Italian design” e quello proposto nel tuo libro?
Faccio fatica a confrontare il mio lavoro con quello di Branzi: lui è un Maestro, un ricercatore, un filosofo applicato al progetto, un docente, un curatore, un architetto; io no, io ho studiato critica, poi editoria, sono entrata nel design attraverso un osservatorio speciale, privilegiato, ma anche parziale come quello di una Fabbrica del Design e, negli anni in cui Branzi militava, i miei genitori non si erano probabilmente nemmeno conosciuti… Le differenze sostanziali perciò inevitabilmente sono tantissime.
È chiaro però che chi oggi si occupa di design italiano non può non confrontarsi con quella mostra. Volendo usare una metafora, che forse lui stesso potrebbe apprezzare (ma chissà), immagino la mostra “The new Italian design” come una delle sue architetture lignee, un asse portante quindi. Invece il mio contributo, rimanendo in metafora, è un ramo, più fragile, leggero, però appuntito, che potrebbe spuntare da quel monolite. Perciò, con un taglio molto personale e con un libro – che comporta inevitabilmente un approccio molto diverso da quello di una mostra – ho pensato che potesse avere un senso provare a interrompere quel continuum disegnato dal Maestro (che non a caso aveva utilizzato, nella sua mostra, un nastro portante ininterrotto per esporre i progetti) e inserire delle discontinuità, dei distinguo, delle fratture. Il mio obiettivo era dichiarare che le espressioni del design italiano contemporaneo – siano belle o brutte, buone o inutili, sperimentali o retrograde, salvifiche o arrendevoli – non sono omologabili in un unico rasserenante grande e anonimo insieme. L’altra differenza, apparentemente superficiale, è che io conosco uno a uno i designer citati nel libro, ho presenti le loro facce e il loro lavoro, li ho incontrati di persona. Per la mostra di presentazione mi è parso bello approfittare del fatto che sono vivi e con un cervello pensante!

Foto di Carlo Lavatori
Testo di Maddalena Padovani