Si assiste a un crescente recupero e reinvenzione delle culture artigianali territoriali, soprattutto da parte di giovani designer italiani. Il saper fare stabilitosi in un luogo o i materiali che caratterizzano un’area geografica sono riletti attraverso citazioni, non repliche, di forme folcloristiche e una fabbricazione ‘lenta’, in cui il gesto artigianale ritrova la sua poesia. Il design aggiunge un valore narrativo e concettuale all’oggetto fatto a mano, raccontandone la storia materiale.

Il palermitano Vittorio Venezia fa realizzare allo stagnino Nino Ciminna di via Calderai, la storica strada degli artigiani del metallo, corpi illuminanti in acciaio ispirati ai contenitori metallici e agli utensili tradizionali della Sicilia occidentale.

Il toscano Marco Guazzini recupera due manifatture tipiche della sua regione, il tessile e il marmo, fondendo la lana agli scarti della pietra.

I fiorentini di ZP Studio declinano un archetipo formale con materie e processi artigianali in via di estinzione che hanno rintracciato tra la Toscana e l’Emilia Romagna.

Infine, il collettivo Portego seleziona progetti, da far realizzare ad artigiani veneti di differenti specializzazioni, che richiamano i caratteri tipici del paesaggio veneto.

Questi progetti, sia pur tentativi isolati, sono il segnale del risveglio del genius loci? Si può parlare di design territoriale? Lo chiediamo a Ugo La Pietra, profondo conoscitore dell’artigianato artistico italiano, che a questa visione del progetto ha dato una definizione.

Ma prima di rispondere alla domanda, il poliedrico artista e teorico tiene a fare una serie di precisazioni. “Il rinnovato interesse per l’artigianato porta alla luce un problema tipico del nostro Paese che raramente viene descritto. La nascita del design industriale italiano ha portato a un progressivo disinteresse verso la cultura artigianale del fare.

E ha imposto un approccio progettuale opposto a quello dell’arte applicata che parte dall’indagine sulla materia. I diplomati in design non hanno cultura fattuale, pertanto ciò che fanno non è di livello qualitativo elevato. In più oggi, mediamente, le persone non sanno distinguere una ceramica da una porcellana

Al contrario nel mondo oltralpe, dagli Stati Uniti al Giappone, si è continuato a sviluppare l’arte applicata, il cosiddetto ‘craft’, coltivando una pratica generazionale e dando vita a istituzioni, scuole, musei e al mercato dell’alto collezionismo. L’Italia difficilmente può confrontarsi con questo mercato. Il design artigianale che si apprezza da noi è quello che si realizza con i processi seriali, come gli stampi ceramici, che non ha niente a che fare con l’artigianato artistico che si riscontra, ad esempio, in Giappone”.

Negli anni Ottanta e Novanta, Ugo La Pietra ha realizzato spettacolari mostre ad Abitare il Tempo di Verona, fiera nata per dare lustro al mobile in stile che in quegli anni rappresentava il 70% del fatturato del settore legno-arredo. Con le sue mostre, architetti e designer sono venuti a contatto con gli artigiani depositari della cultura del fare, fruendo di una qualità manifatturiera che si era abbandonata.

“Quell’innesto tra cultura progettuale e cultura del fare non è più possibile oggi perché le aziende artigiane sono quasi tutte scomparse. E se manca chi può fare la cose, un vero e proprio movimento non può crearsi. Oggi i designer devono sopperire al clamoroso buco che noi stessi abbiamo creato. È colpa anche, e soprattutto, delle istituzioni che non sono state in grado di promuovere e proteggere l’artigianato.

Le nuove generazioni, però, possono fare leva sul nostro dna, ovvero il fare arrangiandosi nelle condizioni più difficili, e progettare in ciò che io e Enzo Biffi Gentili abbiamo definito come ‘artigianato metropolitano’, una modalità del fare che si avvale di strategie nuove, non solo nelle tecnologie come le stampanti 3D, ma anche in materiali che nessuno pensava di utilizzare.

Il caposcuola è Gaetano Pesce che ha sperimentato nell’unicità del silicone. La diversità sarà il valore su cui puntare. Tuttavia il designer deve essere in grado di un atto creativo complesso che affronta in modo sistemico il progetto, la produzione, la comunicazione e la vendita. Altrimenti si tratterà di operazioni isolate destinate ad esaurirsi”.

Ugo La Pietra, dunque, non ritiene che quest’attenzione del design verso il fare artigianale sia un movimento o un ritorno al genius loci: “Alla globalizzazione fa da contraltare la diversità; come alla virtualità equivale la naturalità. Sono opposizioni della dimensione schizzoide in cui vive la nostra società. Tuttavia la ricerca nella territorialità è una strada progettuale, purché penetri nel territorio come una sonda e cerchi di capire come sfruttarne le risorse ambientali e culturali.

Di questo si occupa il design territoriale, che identifica, con la metodologia di un antropologo, la stratificazione di esperienze e conoscenze che rende un luogo unico e riconoscibile. Gli elementi comuni sono talvolta difficili da scoprire perché le risorse non sono solo materiche, pertanto in questo senso numerosi progetti sono atti molto superficiali. Con la legge Ronchey, che ha consentito la vendita di oggetti negli shop dei musei, ho pensato che il merchandising museale potesse diventare una risorsa di business. E nel resto del mondo è così: il Metropolitan di New York ha addirittura un laboratorio interno che realizza gli oggetti.

Questi prodotti, così come i souvenir, possono valorizzare e trasformare il saper fare alzandone il livello e promuovendone il radicamento al territorio. Si pensi a quanti eventi culturali e turistici ci sono in ogni regione d’Italia per i quali si può progettare qualcosa. A Montelupo Fiorentino, area famosa per la ceramica, il Comune ha chiesto a otto artisti, me compreso, di realizzare sei sculture urbane permanenti con artigiani locali. È una valorizzazione del genius loci perché l’idea dell’artista si unisce alla territorialità, intesa come risorse del territorio, parlando dell’eccellenza della città, che in questo caso è la ceramica”.

Testo di Valentina Croci