La percezione del design americano da parte dell’Europa è sempre stata mutevole. Per decenni gli Usa sono stati il rifugio per designer e teorici del vecchio continente che Oltreoceano trovavano un mondo produttivo in cui la semplificazione e il pragmatismo vincevano sopra ogni logica stilistica e decorativa.

Basti pensare al modello fordista di organizzazione della fabbrica e della filiera produttiva, per anni riferimento per Olivetti e ogni imprenditore illuminato in Europa. Il design americano ha sempre avuto una fierezza seriale, una dimensione di appartenenza alla vita reale e quotidiana.

Non a caso, il primo designer approdato alla copertina di un rotocalco di diffusione di massa è stato Raymond Loewy sul Time; sintomo questo della popolarità e dimestichezza col prodotto industriale acquisite dal pubblico americano a partire dagli anni ’30.

E, infatti, nel Dopoguerra si affermano due colossi dell’arredamento: da un lato la Knoll, con la sua vocazione internazionale, il suo guardare ai maestri europei del razionalismo; dall’altro la Miller, con un catalogo che rivendica radici autenticamente americane e uno lifestyle che insegna al pubblico statunitense una maniera disinvolta dell’abitare.

Il che corrisponde anche a filosofie progettuali incarnate alla perfezione da Saarinen, il grande architetto che progetta furniture con la Knoll per completare la sua idea di spazio, e gli Eames, che con la Miller sperimentano forme, materiali, colori ma anche comunicazione in tutte le sue sfaccettature.

Se questi esempi restano pietre miliari, note ai più, della storia del design made in USA, non altrettanto scontata è la conoscenza della condizione contemporanea del progetto americano, in un contesto dalle potenzialità economiche altissime, ma, per certi versi, incredibilmente ancora molto da indagare.

Un Paese dove, rispetto all’Europa, il design non rima inevitabilmente con l’arredo e, anzi, dimostra esempi avanguardistici in campi di prodotto molto lontani dal mobile: Nike, Apple, Google sono solo alcune delle compagnie che identificano il design americano come eccellenza in settori diversi.

In questi casi, inoltre – tranne per Apple, che dichiara da anni la centralità della figura di Jonathan Ive – il prodotto e il brand di solito coprono ogni autorialità. Eppure le scuole statunitensi diplomano ogni anno centinaia di talenti, i più promettenti dei quali escono dalla Rhode Island School of Design (RISD), dal Savannah College of Art and Design (SCAD) e dalla mitica Cranbrook Academy of Art (quella di Eames, Saarinen, Bertoia e Florence Schust, per intenderci).

Storicamente, un campo di attività che ha sempre contraddistinto i progettisti americani è quello della grafica. Basti pensare che il blog di design più visitato al mondo, con circa un milione di visite al mese, è Design Observer, fondato da Michael Bierut, graphic design del celebre studio Pentagram.

Tuttavia, la scena americana mantiene un che di sfuggente alla codificazione. Marc Benda, titolare della Friedman Benda Gallery di New York, uno dei massimi talent scout mondiali, sostiene che “una nuova generazione di progettisti individuali sta emergendo. Quello che è affascinante è che questi stanno costruendo un nuovo significato del design contemporaneo americano, che va oltre la relazione con la tradizione. Spesso, esso intercetta il pensiero scultoreo contemporaneo e un approccio alla creazione che è intuitivo e artigianale. Il design americano sta diventando molto espressivo e gestuale, piuttosto che restare ancorato alla funzionalità dei suoi oggetti”.

Questo si conferma nella presenza di autori statunitensi tra le scelte della galleria che non a caso sono, insieme agli olandesi, tra i più giovani di tutto il loro catalogo. Osservando, infatti, le opere di Adam Silvermann, Chris Schank e Misha Kahn sorgono pochi dubbi che il territorio di riferimento sia quello dell’Art Design e della commistione tra generi che di certo nulla hanno a che fare con la ripetitività della serie industriale.

Anche Steven Haulenbeek, designer con base a Chicago, racconta della sua formazione scultorea, sebbene il suo approccio risulti più internazionale, vicino a quello di tanti suoi colleghi e coetanei europei. “Ho iniziato come scultore”, racconta, “e poi sono passato al design industriale, ma oggi mi sono posizionato nella zona grigia intermedia alle due aree. Sono più interessato alla scoperta del materiale e alla ricerca di nuovi processi di fabbricazione, come è visibile nelle mie ultime opere”.

Pezzi che Steven vende autonomamente o attraverso piattaforme online, grazie a un e-commerce che in Usa conosce una disinvoltura ancora tutta da acquisire per noi. Tutti gli attori della scena americana contemporanea concordano su un punto: il design statunitense non è definibile in via univoca, essendo composto da realtà culturalmente e geograficamente troppo vaste per trovare linee di identificazione assoluta.

Ma, al tempo stesso, la figura del nuovo progettista conosce una condizione di imprenditorialità personale che forse alle generazioni precedenti non era così familiare. Marc Thorpe è un tipico esempio di come un singolo possa creare una piccola impresa con uno studio che opera tanto nella limited edition quanto nella serie, in quella artigianale, come in quella per le grandi compagnie internazionali.

Costringerlo nell’etichetta di giovane designer americano non farebbe giustizia né alla sua attività, né al ritratto fatto di tanti piccoli volti che emerge come l’unica autentica valutazione della scena.

“Ho sempre avuto una grande difficoltà ad essere etichettato secondo il mio Paese d’origine”, spiega Thorpe dal suo studio di New York. “Quello che ho capito è che il design americano è uno slogan vuoto, che non esiste realmente. L’America non è uno stile, l’America è un’idea. E l’idea riguarda la diversificazione nella quale ognuno trova la sua propria voce”.

L’unica cosa certa, quindi, è che l’America del design di oggi è pluralista e di certo non progetta, né alza, muri col mondo.

Testo di Domitilla Dardi

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Friedman Benda Gallery: Wendell Castle, Wandering Mountain, 2014
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Friedman Benda Gallery: Adam Silverman, Untitled, 2017
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Friedman Benda Gallery: Misha Kahn, Stool, Pluto, 2016
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Friedman Benda Gallery: Chris Schanck, Alufoil, 2016
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Un ritratto del designer Steven Haulenbeek basato a Chicago
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Steven Haulenbeek, lampade Webcoat, 2002, in fibra di PVC e metallo
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Steven Haulenbeek, vaso in bronzo Ice-Cast, 2017.
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Steven Haulenbeek, consolle RBS
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Steven Haulenbeek, vasi GeoSand, in sabbia rinforzata con resina.
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Dettaglio del vaso Ice-Cast di Steven Haulenbeek.
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Ritratto del designer newyorkese Marc Thorpe
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Marc Thorpe, sistema di tavoli Lily, Casamania, 2015
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Marc Thorpe, tavolino Mark, Moroso, 2010
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Marc Thorpe, seduta Husk, 2016
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Marc Thorpe, tavoli Ratio, Moroso, 2013
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Marc Thorpe, divano Blur, 2013
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Marc Thorpe, tavolini Set, 2017.
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Marc Thorpe, tavolini Morning Glory, Moroso, 2014.
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La lavorazione dei pezzi disegnati da Marc Thorpe per la collezione M’Afrique di Moroso, realizzata in Senegal mediante l'intreccio di fibre normalmente utilizzate per le reti da pesca.
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La lavorazione dei pezzi disegnati da Marc Thorpe per la collezione M’Afrique di Moroso.
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La lavorazione dei pezzi disegnati da Marc Thorpe per la collezione M’Afrique di Moroso.
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La lavorazione dei pezzi disegnati da Marc Thorpe per la collezione M’Afrique di Moroso.