Il 2 aprile 2016, la Triennale di Milano inaugurerà una nuova mostra internazionale. Il design, l’architettura e l’artigianato e l’intera società sono cambiati profondamente rispetto al 1996 (data dell’ultima mostra internazionale) e la Triennale vuole tornare a essere testimone e osservatorio privilegiato di queste trasformazioni.
Il problema, oggi, non è più quello di indagare un futuro auspicabile, ma, piuttosto, quello di compiere un’esplorazione sull’enigma del presente, cioè sulle trasformazioni che questo secolo ha introdotto nella società e nella cultura del progetto.
La XXI edizione della mostra internazionale si presenta, infatti, con un originale e ambiguo titolo problematico, Design after Design, che significa indagare un presente dove il design non è più soltanto product design, ma è anche espressione di una trasformazione antropologica e tecnologica, spontanea e imprevista.
Negli ultimi decenni le società occidentali si sono trasformate da civiltà ‘urbane’ a “civiltà ‘merceologiche’: la natura della merce – molecolare, esportabile, priva di fondazioni – segue flussi che tendono a de-territorializzare il mercato e, con esso, il concetto di città.
Il termine ‘design’ non significa, oggi, soltanto progetto, ma art direction, servizi, ricerca, sperimentazione, innovazione, comunicazione, adeguamento della città a nuove funzioni; significa sostegno all’intero sistema industriale, impegnato a affrontare la concorrenza internazionale, fornendogli nuovi orizzonti di sviluppo e energia di innovazione.
Se, un tempo, concorrenza significava confrontarsi con la produzione locale o nazionale, oggi è indispensabile informarsi su ciò che si produce in Cina, in India o in Brasile.
Per questo motivo, le nazioni industrializzate, come quelle in via di industrializzazione, investono oggi molte delle loro energie per la formazione di nuove generazioni di creativi, nel settore del design, della moda, dell’arte, delle nuove tecnologie.
Il design, dunque, non è più soltanto una pratica di progetto destinata a un ristretto mercato di élite, una disciplina praticata da un numero ristretto di professionisti e di industrie dell’arredamento, per diventare – positivamente – una nuova “professione di massa” in grado di affrontare tematiche merceologiche e strategiche, acquistando così, per la prima volta, un ruolo centrale all’interno dell’economia globalizzata, fornendo quella energia indispensabile a rinnovare i mercati e adeguarli a una complessità sociale in continuo sviluppo.
Convivono, dunque, due anime diverse nella definizione di design: un design indipendente, imprevedibile, non destinato al mercato ma piuttosto a esprimere la sensibilità cangiante di una generazione, e, dall’altra, un design che assume un ruolo centrale nell’economia globalizzata.
Le nuove tecnologie robotiche hanno ridotto la distanza tra consumatore e produttore e permettono di realizzare serie diversificate di oggetti artigianali, ma anche armi –come i droni – ingegneria genetica, nano-tecnologie, organismi robotici; la fabbrica post-fordista sembra affidare alle nuove tecnologie e ai nuovi materiali, il ruolo di aprire nuove dimensioni alla democrazia, ma in realtà non riesce a educare questa libertà, il cui indotto potrebbe sfuggirgli di mano, e esaurirsi in un nuovo universo di gadget e di morte.
Per la prima volta nella storia sette miliardi di persone abitano il pianeta; ognuna di loro è portatrice di una propria storia, di una propria identità, di una propria diversità e anche di una nuova creatività.
La complessità dei mercati e della società cresce dunque in maniera esponenziale; questa complessità sta mettendo in crisi l’idea stessa di governo e di progetto, come portatori di ordine e raziocinio. Possiamo chiederci se un mondo ordinato e programmato sia oggi migliore di una società anarchica e imprevedibile, ma ricca di energie vitali come quella nella quale viviamo.
Nella nostra civiltà merceologica, abitare, lavorare, consumare, sono attività che si integrano e convivono; la città, intesa come organizzazione delle funzioni e delle relazioni fisiche, è diventata un frammento di un territorio illimitato, opaco, “che non ha più un esterno” e si espande senza un preciso orizzonte di riferimento. Il territorio urbano può essere oggi definito come “un PC ogni 20 mq”.
Design after Design significa una cultura del progetto che s’inoltra in territori di cui non conosce né i limiti né la finalità: condizione, questa, d’incertezza, ma anche di libertà, di sperimentazione, di una nuova fase della nostra evoluzione, di una nuova preistoria.
di Andrea Branzi