La prima cosa che sorprende di questa villa anni Cinquanta progettata dall’architetto belga Joseph Viérin (1872-1949) a Kortrijk, nelle Fiandre Occidentali, è il verde pettinato del maestoso parco nel quale si adagia.
Tra secolari alberi di querce e platani, emerge con i suoi muri in mattoni finiti a calce bianca ritagliati da profonde finestre e aperture all’inglese che danno ritmo a un corpo a forma di L, sviluppato su due livelli e chiuso da un’irregolare ma molto evidente copertura spiovente a coppi rossastri punteggiata da alti camini di mattoni sempre bianchi.
Un twist country chic che è rimarcato osservando gli spazi interni della casa: le arcate che segnano la successione dei percorsi distributivi, le cornici in mattoni e pietra che indicano le soglie, fino alla preziosa boiserie lignea che fodera la stanza dedicata allo studio, dove arredi e luci sono ancora quelli originali realizzati dal noto designer belga Jules Wabbes (1919-1974).
Un contesto ibrido e impegnativo, con il quale Vincent Van Duysen si è confrontato in primis rispettandone la storia in modo rigoroso, mediante un radicale intervento di riordino, pulizia e apertura spaziale dell’architettura e degli spazi, con particolare attenzione alle loro qualità percettive nelle inquadrature del paesaggio esterno.
Nella realizzazione dei nuovi episodi abitativi richiesti dalla committenza, le vasche d’acqua outdoor e la pool house, concepiti come addizioni volumetriche compiute e indipendenti, il progetto ha cercato e trovato di più: un dialogo del costruito con il paesaggio in chiave di rapporti ed equilibri tra le parti, che si integrano in una efficace sintesi linguistica, pur mantendosi distinte come grammatica espressiva ed estetica.
Si è così definito un complesso sereno e senza tempo, dove, all’insegna della riduzione di qualsiasi elemento superfluo, forme antiche e contemporanee vanno a braccetto, regalando nuove possibilità di vita e condivisione, generate dalle modulazioni tattili-cromatiche delle superfici.
Tre monolitiche vasche d’acqua di misura differente in pietra limestone blu affiorano ora dal curatissimo manto erboso su disegno dell’architetto paesaggista Paul Deroose che, collocate parallelamente al fronte principale della villa storica, concretizzano un nuovo cannocchiale visivo foriero di scorci dinamici.
Il volume della pool house, articolato in zona wellness nel basement e in sala da pranzo, soggiorno invernale/estivo e cucina al piano terra, è stato invece sistemato a lato dell’ingresso, come una scatola lineare, con l’essenzialità di un padiglione miesiano: snelli infissi metallici a vista, vetrate trasparenti continue, soffitti alti oltre tre metri e un nastro di piastrelle di terracotta lavorate a mano nella bordatura del tetto a sbalzo che crea un rimando diretto alla vecchia copertura della casa.
Dietro al muro del giardino, il volume di collegamento con la villa storica funge proprio da ingresso, ma anche da galleria d’arte e belvedere del palcoscenico domestico. Diventa uno spazio di connessione-distribuzione che, sul piano percettivo, declina i medesimi segni, altezza e palette materico-cromatica della pool-house: grandi pareti vetrate o in mattoni finiti a calce bianca che si estendono da lato a lato, per l’intera lunghezza dello sviluppo, definendo una profonda corte interna-solarium, pavimentata in pietra limestone blu.
Queste lastre di grande formato caratterizzano, come elemento di continuità, anche le superfici di calpestio della cucina, della piscina e dell’hamman sotterraneo, ritornando al volume della pool-house, molto curioso risulta il fatto che, durante la bella stagione, le sue pareti di vetro possono affondare nella terra e diventare completamente a scomparsa, estendendo davvero gli spazi dell’abitabilità open-air in un continuum ininterrotto.
Per ricavare un living room per l’estate e uno per l’inverno è stato necessario scavare dei locali interrati che ospitassero le parti meccaniche e il riposo delle vetrate quando non in uso. Come dire, la contemporaneità di Vincent Van Duysen si muoverà anche sulle note di Mies Van der Rohe, ma con un alfabeto e un know-how tecnologico decisamente attualizzati nella performance.
Testo di Antonella Boisi – Foto di Koen Van Damme/courtesy VVDA, Richard Powers/ Photofoyer



