Affrontare il tema generazionale comporta dei rischi: il confronto, prima di tutto, al confine dell’arbitrarietà, poiché il tempo che passa presuppone evoluzioni e modificazioni che producono, anche in ambito familiare, estraneità. È del resto auspicabile che la giovane generazione affronti la professione in modo nuovo.
Infine è rischioso, perché induce alla nostalgia, un sentimento che non si addice al progetto che, sin dal vocabolo, allude a un atteggiamento proiettivo. Con persone speciali, conviene tentare l’azzardo di un confronto. Come abbiamo fatto con Aldo e Matteo Cibic, rispettivamente zio e nipote, e con altre due coppie di designer padre e figlio: Paolo a Carmine Deganello, Alberto e Francesco Meda.
A loro abbiamo chiesto di raccontarsi e di raccontarci come, dalla comparazione delle loro esperienze e delle loro aspettative, possano emergere i punti fermi e le criticità di un ruolo professionale che oggi vede ridisegnare le proprie competenze e il proprio campo d’azione.
Aldo e Matteo Cibic
Su Aldo Cibic si è scritto molto, anche su Interni, un lungo profilo nel marzo del 2011. Matteo Cibic, il nipote, si è affacciato da poco, con irruenza, sul palcoscenico del design. Dai rispettivi lavori non traspaiono analogie, né metodologiche, né formali.
Eppure Matteo, che si definisce un iperattivo progettuale estraneo all’estetica di Aldo – che invece attribuisce al tratto dei suoi progetti “una originalità morbida e gentile” – confessa d’essere stato molto influenzato dallo zio, un progettista di successo, sempre in viaggio e molto pubblicato sui giornali.
“Dall’età di 16 anni” racconta “trascorrevo le estati nello studio di Aldo in via Carducci. Terminato il liceo artistico, frequentato per ‘colpa’ di Aldo, vado per un anno a Londra. Qui emerge il mio lato pulp, in occasione della mostra Sensation, dedicata alla young British art, promossa da Charles Saatchi (Londra 18 settembre-28 dicembre 1997, Royal Academy of Art). Poi mi trasferisco a Milano per frequentare il Politecnico e parallelamente inizio a lavorare nello studio di mio zio. Grazie a lui sono entrato in contatto con i ceramisti veneti con i quali inizia la mia avventura nella ceramica”.
Aldo tiene a sottolineare la diversità delle loro personalità. “Anche se ho avviato il mio percorso” confessa “in modo anticonformista, iniziando a collaborare con Ettore Sottsass, sono sempre stato all’interno di un sistema, sebbene anticonvenzionale. Mi considero un progettuale. A livello personale io sono un pigro totale, mentre lui è un iperattivo. Una forza della natura per cui provo invidia. Matteo ha una capacità inventiva esplosiva, io, al contrario, sono un teorico della gittata lunga, come Ettore: la mia storia è una sola e continua nel tempo”.
“Abbiamo due approcci diversi” prosegue Aldo “e ci siamo anche scontrati. Io faccio il mio lavoro e basta. Matteo, invece, è molto attivo nel comunicare. Io, al contrario, credo, che un’ancora teorica ci debba essere. Io covo le cose, elaboro. Lui, invece, è dirompente”.
“Ritengo che la nostra diversità” aggiunge Matteo “consista nella mia capacità di condurre le idee a livello imprenditoriale, riuscendo a fermarmi prima dei grandi disastri. Io non mi sento imprenditore. Sono un designer che è capace di procurarsi dei clienti per le sue idee. Prima di trovare i clienti mi sono autoprodotto e quest’attitudine l’ho ereditata da Aldo, basti pensare alla sua collezione Standard. Io sono disposto ad affidare le mie creature ad altri, con la consapevolezza di riuscire a produrre immediatamente altre nuove idee. Da Aldo ho imparato a non fare architettura”.
“Io, invece” interviene Aldo “sono più attaccato ai miei progetti, anche perché non mi muovo da solo, ma con un gruppo di collaboratori. Dipende anche dal tipo di lavoro. L’architettura chiede una struttura e dei tempi lunghi. Le mie storie, dalle architetture ai progetti teorici, come Microrealities, riguardano la vita delle persone e chiedono competenze multidisciplinari. Il mio sogno è attingere alla ricchezza delle idee di altre persone. Io mi considero una parte del progetto e mai l’autore totale”.
testo di Cristina Morozzi
Paolo e Carmine Deganello
Noto esponente del radical design degli anni ’60 e ’70, Paolo Deganello non ha mai rinunciato a una visione politica del progetto e a una posizione critica nei confronti della ‘mercificazione’ legata al mondo dell’industria. “L’intransigenza è una predisposizione ormai incompatibile con i tempi, per me invece è fondamentale. E io rinuncio a sviluppare un progetto se non fa parte della mia intenzionalità”.
Carmine, invece, si dichiara molto più pragmatico rispetto al padre. Studi di design in Italia, si è formato a New York collaborando con Gaetano Pesce, dopodiché ha costruito i suoi legami professionali tra San Francisco, l’Olanda, dove oggi risiede, e il suo Paese d’origine.
La passione per il lavoro manuale lo ha portato a sviluppare un approccio sperimentale al progetto, molto simile a quello di matrice nord-europea, e nello stesso tempo a interessarsi di innovazione legata al product design. In questo senso, sottolinea la diversità della sua esperienza rispetto a quella paterna. Ma non manca di evidenziare l’aspetto più critico del suo mestiere, specie se rapportato alla situazione italiana.
“In Italia” commenta Carmine “la dimensione della sperimentazione è molto limitata; non ci sono neppure gli spazi fisici che consentano di svilupparla. Per dare un’idea: quando ho avuto bisogno di impostare il progetto del Marmo Fluido con i designer olandesi, il fab lab Amsterdam mi ha messo a disposizione, gratuitamente, un piano intero di un castello, dotato di strumenti e macchine a controllo numerico . Esistono inoltre fondazioni che investono denaro a fondo perduto per consentire ai designer di sviluppare i loro progetti”.
“Quello che è importante sottolineare” precisa Paolo “è che la ricerca oggi è affidata al volontariato, ovvero al mondo dell’autoproduzione che, con grandi sforzi e sacrifici, si accolla i costi della ricerca prima sostenuta dall’industria. Si tratta di una situazione amorale, dal mio punto di vista, perché fa riferimento a lavoro non pagato. Questa situazione pesa moltissimo anche sulle scuole e costruisce una generazione di progettisti senza speranza, che per sopravvivere sperimenta a suo rischio e pericolo. Anche io ho deciso di fare l’autoproduttore”.
“Oggi i designer” continua Carmine “espongono i loro progetti su internet e trovano chi glieli supporta. Sta cambiando completamente il rapporto tra designer, azienda, mercato, distribuzione. Quello che invece non cambia è il ruolo delle istituzioni, che in Italia non supportano il lavoro di ricerca. Le aziende, comprensibilmente, vanno a cercare i progetti e le produzioni là deve gli conviene. La qualità fortunatamente rimane alta, ma non c’è più innovazione e gli oggetti risultano tutti omologati tra loro. Lo stesso designer rinuncia all’innovazione perché non vuole rischiare che il suo progetto finisca in un cassetto.
Io penso che il progettista sia una figura al servizio delle aziende, però anche le aziende devono essere al servizio del designer e non devono permettere che il suo lavoro venga sminuito e sottopagato. Senza un rapporto di scambio, fiducia e rispetto reciproco tra queste due figure viene inevitabilmente meno la qualità del progetto”.
“Poco tempo fa” conclude Paolo “mi hanno chiesto di tenere una conferenza sull’antidesign. Io ho affermato che oggi ci sarebbe un grandissimo bisogno di antidesign, ma su temi completamenti diversi da quelli che in passato hanno generato il pensiero radical. Il progetto deve affrontare una grande questione, ripensare radicalmente le merci e stabilire a cosa vale la pena dare bellezza attraverso il design.
Le strade possibili sono tre: quella del supernormal teorizzata da Morrison e Fukasawa, che afferma che non ha senso ridisegnare gli oggetti che già funzionano; quella di Alessandro Mendini, che intende dare una dimensione artistica all’oggetto; infine quella delle merci ecologicamente consapevoli. Questa è la vera innovazione di cui oggi abbiamo veramente bisogno, il grande tema di cui oggi si deve occupare la cultura del progetto: la conversione ecologica, sia del prodotto che del processo produttivo”.
testo di Maddalena Padovani
Alberto e Francesco Meda
Francesco collabora con il padre Alberto Meda, vincitore di ben quattro compassi d’oro, dal 2008. Ha iniziato il suo percorso professionale a Londra, lavorando prima nello studio di Sebastian Bergne, quindi di Ross Lovegrove. “Sono tornato a Milano” esordisce Francesco “perché la mia ragazza è rimasta incinta e pensavo che fosse importante stare accanto a un figlio piccolo”.
“Sono stato io” interviene Alberto “a dirgli di venire a lavorare con me. C’è stata un’occasione che ha favorito questo ricongiungimento. Ritenevo che, nonostante avessi molti progetti in corso, fosse interessante costruire da zero un nuovo rapporto con Francesco.
La telefonata dell’azienda Kohl che chiedeva un progetto industriale mi è parsa l’occasione per partire pariteticamente. All’inizio Francesco era un po’ digiuno, ma aveva una capacità che io non avevo, quella di disegnare in 3D, che ha favorito un riequilibrio. È stata una partenza fortunata, primo perché abbiamo incontrato delle persone molto perbene, secondo perché il prodotto realizzato ha avuto successo. Nel tempo la nostra collaborazione si è un po’ diluita, in quanto lui ha preso il volo e ora fa le cose sue, come era giusto che fosse”.
“Gli ambiti erano molto diversi” aggiunge Francesco. “Quando ho iniziato a fare i miei progetti erano molto distanti da quelli di mio padre, che era comunque affascinato dai risultati che si potevano ottenere con l’autoproduzione. La mia decisione di autoprodurmi non è aprioristica, ma deriva dalla difficoltà di trovare aziende disposte a realizzare le mie idee. Gli oggetti autoprodotti, inoltre, possiedono un’estetica molto diversa da quella dei prodotti industriali. La trovo un’esperienza affascinante che dà delle risposte a un mercato saturo di prodotti standardizzati. La differenza estetica deriva innanzitutto dalla limitatezza delle risorse”.
“Secondo me” interviene Alberto “si profila l’esigenza di creare delle serie più limitate. Esiste inoltre anche un rapporto diverso di remunerazione tra prodotto industriale e autoprodotto. L’esperienza di autoproduzione mi pare più formativa, perché impone di occuparsi di tutti gli aspetti della vita di un prodotto, dalla realizzazione alla comunicazione, alla vendita: sei un designer, ma sei anche un imprenditore”.
“Alvaro Catalan de Ocon” interviene Francesco “con la lampada Pet ha messo in piedi un’azienda”.
“Quando io ho iniziato a lavorare” aggiunge Alberto “esistevano molte più opportunità aziendali e una maggior propensione al rischio da parte degli imprenditori. Il fatto che oggi per la nuova generazione sia difficile trovare una committenza dipende da una grande cecità da parte degli industriali, anche perché, a mio parere, i giovani sono una finestra sul mondo.
Gli imprenditori dovrebbero riconsiderare le nuove energie, che sono un tesoro. C’è una sorta di imbarbarimento, perché oggi nei rapporti con l’industria manca la dimensione umana. Se non avessi avuto Francesco in studio che, ormai, è con me da sette anni, avrei avuto una visione del mondo molto diversa. I suoi occhi mi consentono di stare al passo. Questo nostro rapporto permette un travaso di conoscenze tra vecchio e giovane, molto importante. Il nostro rapporto non è univoco. Qualche conflitto c’è, anche perché io sono il padre, e devo esercitare questa parte, comunque, alla base, tra di noi c’è anche una sintonia caratteriale”.
testo di Cristina Morozzi
Ritratti di Efrem Raimondi