SPECIALE EXPO
Il padiglione più interessante? “Quello del Brasile”. Parola di Marko Brajovic, una laurea allo IUAV con una tesi sul teatro costruttivista russo, che così motiva e oggettivizza questa dichiarazione di parte: “Lo è per coerenza. È frutto di un concorso internazionale al quale hanno partecipato due studi: uno di architettura, quello di Arthur Casas, uno di scenografia e allestimento, il mio, coadiuvati dal local architect, Mosae Milano.
Abbiamo unito gli sforzi, 15 persone tra il mio e lo studio di Arthur, e, come già avevamo fatto per altri due progetti curati insieme, elaborato un unico concept che trascende confini disciplinari: in questo padiglione tutto contribuisce integrato alla rappresentazione sinergica di com’è il Brasile oggi e come può contribuire a soluzioni per nutrire il mondo. Prima di arrivare alla definizione di una forma e di una struttura modulare in acciaio e legno, smontabile e riciclabile, che vive su tre livelli, abbiamo pensato proprio a questo.
Così la rete sospesa, tesa tra le pareti perimetrali del corpo di fabbrica, come camminamento praticabile, e soprattutto come metafora dei concetti di flessibilità, decentralizzazione e relazioni sistemiche tra ricerca scientifica e produzione avanzata, è diventata il nostro driver principale. L’espressione di quell’energia vitale, come spinta verso il domani, che è già del popolo brasiliano, nella sua capacità di accoglienza, dialogo e proposività.
Ci volevamo aprire ad Expo come una grande piazza, organizzata e sostenuta da Apex-Brasil (l’agenzia per la promozione delle esportazioni e degli investimenti ndr), definendo un’esperienza multisensoriale e interattiva. Quanto occhi e corpo possono, infatti, assorbire in un percorso che dura in media 15 minuti? Abbiamo scelto di comporre, dentro una griglia cartesiana, un percorso fluido, privo di porte, affiancando due elementi: la galleria, che ospita la rampa di risalita all’ingresso, e la rete adiacente, che sfiora essenze, ortaggi, piante, fiori e frutti, collocati nella piazza sottostante concepita come una riproduzione, da google maps, del Rio delle Amazzoni: un habitat dove ogni quadratino è un pixel attivato da sensori che, identificando la posizione del pubblico, agisce su suoni e luce propri di una bio-diversità.
Per trasformare la forma programmata parametrico-digitale della rete in struttura di fibra sintetica con anima in acciaio, prodotta dalla danese Kompan, siamo stati a Berlino, dove è stata sviluppata la sua parte ingegneristica/tecnologica. Affiancato, in modo perpendicolare, si trova il secondo corpo del padiglione, in cui sono ospitati altri spazi espositivi: è, di contrasto, tutto bianco, neutro, modernista, animato da proiezioni video ed espositori digitali che raccontano la storia e la cultura agro-alimentare del Brasile. Senza dimenticare arte e design.
Protagonista quest’ultimo, nella lobby, con le originali panchine in canne intrecciate dei fratelli Campana, e, nel ristorante, con le 40 sedute firmate da nomi quali Sergio Rodrigues e Arthur Casas (che ne ha progettato ad hoc due prodotte da Poliform, come i tavoli) ‘accese’ dai 170 lampadari di perline a forma di serpente-boa, opera degli indigeni Yawanawà in collaborazione con il designer Marcelo Rosenbaum e prodotte da La Lampe. Una riflessione complessiva su Expo? Mi sembra efficace l’impianto di matrice romana che allinea in modo sintetico tutti gli episodi espositivi lungo cardo e decumano.
Inoltre la logistica del sito: al confine tra Milano e Rho, adiacente alla Fiera già esistente, quasi ne fosse una naturale estensione spaziale, facilmente raggiungibile con la metropolitana, contribuisce alla dimensione del polo di un’area dedicata agli eventi, in sviluppo organico. Non è terra aliena. Credo molto nei piccoli attivatori più che ai master-plan”.
di Antonella Boisi – foto di Saverio Lombardi Vallauri e Luca Rotondo