La città è Copenhagen e il Blox è l’ultimo, innovativo edificio affacciato sul porto storico della capitale danese: più che una semplice architettura, rappresenta una comunità. il progetto, guidato da ellen van loon, partner dello studio olandese OMA, riguarda la nuova sede del Danish Architecture Center, cuore dell’edificio con le sue sale espositive. Interni lo ha visitato in anteprima
Foto di David Zanardi – Testo di Laura Ragazzola
Qualche dato: 26 metri di sviluppo in altezza contro i 17 sottoterra; quasi 30 mila metri quadrati di superficie (l’equivalente a 4 campi di calcio) di cui 5.900 dedicati ad attività espositiva; 10.000 a uffici per sturt up sullo sviluppo sostenibile della città; 3.300 ad appartamenti; 1.800 al fitness (la palestra si affaccia sul mare); 1.200 ai bambini; 950 al food (ristorante e bar su due differenti livelli); 4.700 a parcheggio per auto e biciclette.
Siamo a Copenhagen (il bike park svela immediatamente la location nordica) e l’edificio che abbiamo visitato si chiama Blox ed è l’ultimo ‘nato’ nella baia della capitale danese. Il progetto, guidato da Ellen van Loon, partner dello studio OMA, riguarda il nuovo headquarters del Dac, Danish Architecture Center: il suo ceo, l’architetto Kent Martinussen ci racconta come è andata in questa intervista esclusiva.
Dac cambia casa: da un edificio storico, icona dell’antica area portuale di Copenhagen, si trasferisce in un edificio contemporaneo, il Blox. Qual è stato la ragione di questo trasferimento? Quale il valore aggiunto?
La risposta è piuttosto semplice. Il mondo si sta aprendo e di conseguenza anche il settore delle costruzioni si sta globalizzando. Questo significa che se in Danimarca esiste una buona qualità urbana, per mantenere alta l’asticella è sempre necessario crescere, evolversi, e aprirsi anche al mondo che ci circonda, agli altri Paesi. Pertanto la risposta alla sua domanda è questa: vogliamo avere visibilità, un maggiore impatto.
Il Blox, infatti, si trova in una posizione più strategica, rispetto alla precedente sed: a due passi dal Parlamento e, grazie a un ponte pedonabile e ciclabile, il Lille Langebro, pronto il prossimo autunno, diventerà anche una sorta di infrastruttura che collegherà due diverse parti della città. Insomma, il Blox rappresenta un catalizzatore, capace di attirare visitatori e promuovere la cultura dell’architettura danese, o meglio ancora la cultura dell’architettura sostenibile. In pratica, si tratta di continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto, ma su scala più ampia e in modo più approfondito, creando stimoli non solo per i danesi ma anche per tutti coloro che vengono a visitare la Danimarca e che desiderano conoscere e sperimentare i valori della nostra cultura.
È questa la missione del Dac?
Sì. Noi crediamo che l’architettura possa cambiare il mondo, contribuendo a migliorare la qualità di vita delle persone. In concreto, lavoriamo per stimolare quella che chiamiamo una “cultura dell’architettura di prim’ordine”: si tratta di stimolare una condivisone di intenti fra cittadini, addetti ai lavori (architetti, imprese costruttrici…) e la municipalità per sviluppare insieme soluzioni future nell’ottica di uno sviluppo sostenibile della società. Con le sue iniziative e attività espositive, il Dac si propone soprattutto di creare un nuova consapevolezza per cui ciascuno può diventare l’artefice di un miglioramento collettivo e individuale insieme.
Come sviluppate questo impegno?
Iniziamo a diffondere una cultura architettonica già a partire dalle scuole: pensi che accogliamo circa 10.000 bambini all’anno, che a volte preferiscono frequentare corsi di architettura piuttosto che andare a giocare a tennis o a pallone…
Insomma, l’architettura diventa parte integrante del loro percorso educativo. Questo accade nelle strutture del nostro centro, ma organizziamo anche visite guidate della città, per far loro capire qual è la sua storia e in quale direzione va il futuro. Partendo dai bambini è possibile crescere una nuova generazione attiva e ‘illuminata’ per riconoscere la qualità dell’ambiente costruito, ma soprattutto per esigerla…
Trasformando le persone in protagonisti della città…
Proprio così. Si può avere una cultura dell’architettura solo se esiste un forte coinvolgimento, accettazione e comprensione dell’importanza della qualità dell’ambiente costruito da parte di chi vi abita.
Quindi volete avere visibilità non solo in Danimarca, ma anche all’estero?
Sì esattamente. Vogliamo avere una portata internazionale.
Il nuovo Dac è stato progettato da Ellen van Loos, partner di OMA, studio olandese. Come siete arrivati a questa designazione?
Tramite un bando di concorso internazionale. Il “think tank”, cioè il gruppo responsabile del progetto di cui anch’io ho fatto parte, per prima cosa ha dovuto decidere dove collocare l’edificio: se spingersi in una delle aree di sviluppo della cintura metropolitana di Copenhagen oppure rimanere nel centro storico…
Alla fine abbiamo optato per un’area centralissima, vicino al Parlamento, un lotto ancora ‘libero’, nel porto interno di Copenhagen. La seconda importante decisione ha riguardato l’organizzazione del concorso, che avrebbe dovuto coinvolgere architetti di tutto il mondo. Dei cento e più candidati, ne abbiamo selezionati sei: 3 studi stranieri e 3 danesi.
E come siete arrivati al vincitore?
Adottando il cosiddetto metodo delle ‘tre P’: progetto, persone e processo. E cioé gli studi dovevano: dimostrare la loro capacità nel realizzare un progetto così impegnativo dal punto di vista della scala urbana e dei costi: parliamo di due miliardi di corone danesi per lo sviluppo complessivo del progetto (circa 270 milioni di euro; il Blox è stato promosso e costruito da Realdania, associazione filantropica privata, ndr); presentare il team di progettisti che sarebbero stati coinvolti nella progettazione; infine, mostrare il processo con il quale avrebbero portato avanti il rapporto con la comunità locale, la municipalità di Copenhagen e con il cliente. Bene, sulla base di questi requisiti lo studio OMA è risultato il più convincente.
Per quale motivo?
L’architetto Ellen van Loon, partner di OMA si è rivelata il nostro partner perfetto. Abbiamo soprattutto apprezzato la sua idea di architettura metropolitana: e, cioé, progettare spazi dove le persone si incontrano, condividono interessi e relazioni. Il committente, infatti, non voleva creare solo un’architettura di alta qualità estetica o formale, ma aveva l’ambizione che Copenhagen potesse disporre di un luogo che fosse più di un semplice, nuovo edificio…
Vale a dire?
Una micro città nella città: questo è il Blox. All’interno trova casa non solo il ‘nostro’ Dac, ma ci sono anche appartamenti, uffici, sale espositive, due ristoranti, bar, una libreria, una palestra, un’area didattica e ludica per i bambini, un parcheggio per le auto e uno per le biciclette…e, ancora, una ‘strada’ di collegamento fra due aree della città prima divise…
Insomma, il progetto di Oma ha creato una sorta di tessuto urbano complesso, in grado di esaudire quello che chiamiamo “il desiderio collettivo” di chi abita in città: e cioè lo stare insieme, anche con obiettivi ed esigenze differenti, e all’interno di un unico edificio … Ecco, è così che è andata: un processo lungo sicuramente. Pensi che tutto è iniziato nel 2006.
Vuole accennarci al tema della prima mostra che verrà organizzata al Dac?
Il titolo della mostra che inaugura gli spazi espositivi del Dac è Welcome Home, ovvero, ‘benvenuti’ nella nostra nuova casa. Ma l’esposizione vuole soprattutto offrire al grande pubblico una visione della casa del futuro e cioè mostrare come l’abitazione si evolverà nel nome della globalizzazione e dell’urbanizzazione.
Non solo. Il nostro intento è andare anche oltre all’architettura tout court, uscendo dai suoi confini per esplorare anche il territorio dell’arte, dell’estetica. Così abbiamo creato uno spazio ad hoc dedicato agli artisti, che si chiama The Golden Gallery: il primo artista a esporre è Olafur Eliasson, che ci presenta Multiple shadow House.
Di che cosa si tratta?
L’artista costruisce una sorta di ‘casa’ per offrire un’esperienza emozionale: il visitatore, entrando, avverte che la casa è vuota, disabitata, ma si rende anche conto che gli spazi interni si animano grazie alla sua ombra e a quelle delle altre persone. Mi viene in mente una famosa canzone della cantante jazz Dionne Warwick: “A house is not a home (when there’s no one there)”.
Ecco, l’opera di Eliasson ci fa riflettere proprio su questo: la casa non è solo un’architettura, una mero spazio fisico, ma è soprattutto un luogo d’incontro, che vive grazie alle relazione fra le persone.
Proprio come il Blox…
Certamente.







