Lo avrete già sentito dire: viviamo nell’epoca d’oro del design. Ciò che probabilmente non avete mai sentito dire è che Città del Messico (ora diventata ufficialmente Ciudad de México o in breve CDMX) è il punto nevralgico più unico e dinamico del design contemporaneo nel mondo. Dillo di nuovo!

Negli ultimi anni, questa megacittà mostruosa, tanto amata (e, in tutta onestà, a volte detestata) – in genere, sui titoli dei giornali per essere il regno del caos, inquinatissimo, trafficatissimo e ingestibile – si è mostrata al mondo con il suo lato più unico, complesso e seducente, giungendo lentamente, ma infallibilmente, a imporsi come destinazione privilegiata dei maghi del design vicini e lontani. Città del Messico ha già avuto il suo momento di boom dell’arte contemporanea, il suo momento di rinascita culinaria… ora apparentemente è giunto il momento del design.

La maggior parte dei nostri grandi problemi (disuguaglianza, corruzione, scarsità di infrastrutture, rischi ambientali) sono ancora presenti e diffusi come prima, ma sembra esserci un cambio di atteggiamento e una visione sul modo di affrontarli, a volte tramite il design. Per esempio, le microinfrastrutture come il popolare programma di bike sharing Ecobici e il Metrobus BRT hanno avuto un impatto positivo su centinaia di migliaia di utenti che ora possono contare su alternative efficienti ed economiche per spostarsi nei quartieri del centro città.

Su scala meno ambiziosa, l’ondata di iniziative di pop-up design, come la fiera itinerante di design La Lonja MX o la piattaforma commerciale Caravana Americana, e dei centri permanenti del design, come Barrio Alameda e Mercado del Carmen, hanno finito per convincere i chilangos (residenti di Città del Messico, ndr) benestanti che è perfettamente accettabile, se non addirittura ‘in’, acquistare hecho en México: mobili, accessori e abbigliamento prodotti localmente (fino a poco tempo fa, chi aveva i soldi non si sarebbe mai sognato di arredare la propria casa o di indossare qualcosa che non fosse di importazione – sintomo triste e ridicolo, ma comunque molto diffuso di malinchism, ovvero della convinzione che tutto quanto viene dall’estero sia meglio).

Le mostre di design non sono più una rarità e, in realtà, alcune hanno attirato decine di migliaia di visitatori. Anno dopo anno, Zona MACO, una delle principali fiere dell’arte contemporanea in America Latina, ha lasciato sempre più spazio al design nei suoi stand molto apprezzati e Abierto Mexicano de Diseño, il festival del design open-source, riunisce centinaia di proposte di studenti come di professionisti. Alcuni di questi cambiamenti hanno contribuito a portare Città del Messico a vincere l’appalto come World Design Capital nel 2018, attraverso gli sforzi congiunti della Design Week México – uno dei principali eventi annuali di design che si svolgono in questa città – e di diverse agenzie governative locali.

In breve, la tavola è imbandita, ma quanto gustosi e succosi saranno i piatti di carnita che verranno serviti da Città del Messico? Uno dei nostri asset di maggior valore ma meno stimati in termini di design è la nostra tradizione nel design moderno, una tradizione profonda, ricca e differenziata, che abbraccia un periodo di circa un secolo. Molti sono consapevoli del fatto che Città del Messico sia una mecca dell’architettura modernista, con edifici importanti di Luis Barragán, Félix Candela, Mario Pani e Juan O’Gorman.

Ma meno numerosi sono quelli che si rendono conto che possiamo contare anche su una storia altrettanto affascinante – ma nella maggior parte dei casi trascurata – di product design e furniture design moderno, portati avanti per tutto il XX secolo da figure come Clara Porset, Eugenio Escudero, Arturo Pani, Don Shoemaker e Diego Matthai. Oggi stiamo riscoprendo il loro lavoro e stiamo cominciando a valutarlo come si dovrebbe.

Un’intera generazione di giovani creativi in città sta abbracciando le arti tradizionali e le modalità del ‘fatto a mano’ con reverenza nei confronti del passato e, nel contempo, con una forte sensibilità contemporanea che incorpora la design intelligence nella conoscenza tacita, trita e ritrita, delle opere artigianali – dai miglioramenti nel controllo qualità e produzione alle competenze di marketing e branding – producendo oggetti senza tempo che, pur essendo radicati nella tradizione, vantano un’incredibile freschezza. Questa nueva artesanía non ha paura di introdurre innovazioni tecniche né di spingere su un’estetica più raffinata, riconoscendo nel contempo il valore dei materiali reperiti localmente e delle produzioni su piccola scala, caratterizzate da alti livelli di competenze ed effettuate in piccole aziende a conduzione familiare che abbondano ancora in città.

Molti appartenenti alla comunità del design si rammaricano per la mancanza di capacità industriale del Messico, quando si tratta di produzione locale. Ma oggi abbiamo la possibilità di fare un salto in avanti e di sposare dichiaratamente una realtà post-industriale, con tutta una nuova serie di mezzi di produzione, distribuzione e scambio. Oltre ai numerosi studi di design/ricerca che stanno assimilando la ‘fabbricazione digitale’ (fabbing) e la prototipizzazione rapida nei processi di produzione a piccoli lotti, uno dei principali punti di forza, unico nel suo genere, del design praticato a Città del Messico è la cultura informale del fai da te, la cosiddetta DIY culture, simile alla maker culture, che si muove tra pirateria e spensierata appropriazione di tutto, dalle tipologie ai brand, ai processi, alle tecnologie, alle identità.

Informalità e innovazione vanno di pari passo a CDMX, certo come risorse di base per la sopravvivenza in molti casi, ma anche come strumenti di prototipizzazione urbana e di creazione con il minimo necessario. Parallelamente alle nostre tradizioni che aspirano al modernismo e alla modernizzazione, abbiamo avuto anche una tradizione reattiva del fare che è fiorita con un cast esotico di personaggi e approcci creativi al design: artigianato digitale, elettronica delle favelas, adattatori a pieno ciclo, esperti di autocostruzione, riparatori di barrios e fornitori-inventori informali. Molti di questi designer non professionisti mescolano tecnologie sofisticate e competenze commerciali con la semplice capacità di utilizzare le risorse limitate disponibili, qualunque esse siano.

Perché questo gigantesco mercato informale della città non dovrebbe essere accettato e interpretato come un mercato del design? Perché le nostre riviste patinate e gallerie hanno così paura della precarietà? Perché gli studenti di design non analizzano i saloni di parrucchiere improvvisati che spuntano di fianco alle bancarelle alimentari nei mercati oppure le magistrali competenze di design che si celano dietro agli zaini stereo customizzati dei venditori della metropolitana?

Perché le scuole di design non tengono corsi per mettere insieme computer da materiali di scarto o lezioni di teoria culturale sull’identità e la grafica piratata? Perché i designer sono tanto riluttanti (o indifferenti) ad accettare il potere dei produttori anonimi e la ricchezza del design informale, che fanno parte di ciò che si intende per ‘classe creativa’ in una città come la nostra? Questo è il tipo di muscolo che Città del Messico deve esercitare in questo strano e preciso ‘punto di inflessione’ per la comunità del design locale.

Anche i designer italiani potrebbero in un certo senso immedesimarsi in questa situazione unica per aver vissuto un momento simile nella loro stessa storia: il movimento del design radicale negli anni Sessanta, quando il design si è meno concentrato su oggetti o finiture specifiche ed è diventato più uno strumento di immaginazione e critica sociopolitica, un’alternativa per immaginare e produrre grandi cambiamenti nello stile di vita e nei punti di vista. Design come risorsa per innescare pensieri seri, dibattiti seri, domande serie e rilevanti. È qualcosa che manca ancora al rovente scenario del design di Città del Messico.

Un design che non è solo critico a livello di condizioni e circostanze, ma è anche autocritico. Una comunità creativa che prospera nonostante la sua frammentazione e le condizioni difficili, che va avanti senza gli obblighi soffocanti della coerenza istituzionale o stilistica che la schiaccia. Una professione che sia aperta, generosa e intelligente invece di essere elitaria, superficiale e compiaciuta.  Questa è la mia lista dei desideri per il 2018.

Nella gallery fotografica, una selezione di prototipi, prove di lavorazione e stampi presentati dall’Archivo de Diseño y Arquitectura di Mexico City in occasione della mostra “Diseño en proceso”: prodotti non ancora finiti, letti attraverso il loro processo realizzativo.

Testo di Mario Ballesteros – Foto di Diego Padilla and Agustín Paredes (courtesy of Archivo Diseño y Arquitectura)

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In questa gallery, una selezione di prototipi, prove di lavorazione e stampi presentati dall’Archivo de Diseño y Arquitectura di Mexico City in occasione della mostra “Diseño en proceso”: prodotti non ancora finiti, letti attraverso il loro processo realizzativo. Sopra, amoATO Studio
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