testo di Elisa Massoni

Non sappiamo molto di cultura africana.

Questa è la prima ragione che ha spinto la curatrice londinese Beatrice Galilée a proporre una riflessione su quanto sta accadendo oggi nei 56 stati del continente e aprire un dialogo fra pensatori e progettisti africani e il pubblico del FuoriSalone 2013. Nasce così Afrofuture, una settimana di appuntamenti con un’Africa sconosciuta, piena di energia e di fiducia nell’avvenire, in bilico fra il bisogno di tenersi un’identità preconfezionata o costruirsene, con molta audacia e coraggio, una completamente nuova. Afrofuture ha aperto sicuramente una breccia nella mancanza di attenzione verso quanto accade oggi appena sotto i Paesi affacciati sul Mediterraneo. Una breccia fatta di stupore e curiosità per una cultura, anzi una pancultura, che si muove rapidamente verso un futuro senza dubbio luminoso. Senza dubbio perché il continente africano ospita la popolazione più giovane del pianeta. E sono giovani che, quando accedono alla cultura visiva e progettuale, sviluppano interessantissimi cortocircuiti culturali. Afrofuture ha portato a Milano Kane Kwei, il falegname del Ghana conosciuto in tutto il mondo per le sue bare tematiche. Gli occhiali vibranti e luminosi di Cyrus Kabiru, da Nairobi. E ancora: Will Mutua, fondatore di Afrinnovator, un osservatorio digitale su tecnologia ed economia in Africa. O il network di Maker Faire Africa, la fiera dei maker africani che l’anno scorso si è svolta a Lagos, portando di nuovo alla luce le capacità di autodefinizione e di autoproduzione dell’intero continente. Un aspetto da non sottovalutare, come sottolinea Béatrice Galilée: “Afrofuture ha avuto esattamente l’effetto che speravo: aumentare la consapevolezza intorno alla cultura panafricana e offrire ai suoi protagonisti l’occasione di un confronto diretto con un pensiero progettuale completamente diverso dal loro: quello italiano, appunto”. Un’operazione che riguarda da vicino la costruzione di un’identità scevra da aspettative o da preconcetti. Il pericolo infatti è di affidarsi a una memoria fatta soprattutto di immagini o concetti già pronti: l’estetica africana, la produzione africana. In realtà, continua Béatrice Galilée: “È meglio parlare di persone, di individui uniti da un comune denominatore, senza confini, in Africa come in Europa. La differenza sostanziale fra i due continenti è il post-colonialismo: la presenza endemica, nella lingua, nelle immagini, nella storia, di influenze esterne. È qualcosa che è presente. Non si può ignorare, né accettare acriticamente: l’impegno dei progettisti africani è proprio quello di trovare una mediazione e costruire un’identità più solida e consapevole”. Ma molti degli Afrofuturist non vivono in Africa: come possono pensare di costruirsi un’identità africana? “Il termine afropolita, proposto da Nana Ocran che mi ha aiutato nella costruzione di Afrofuture, risponde alla domanda. La diaspora africana è cominciata da decenni, ma la capacità di mantenere una relazione profonda e produttiva con il territorio di origine è una caratteristica evidente di molti professionisti che vivono e lavorano in Europa. Parlano di Africa, lavorano con l’Africa, studiano l’Africa e desiderano ‘fare’ in Africa. Ed è la relazione che contribuisce a costruire un’identità libera, non il fatto di vivere in Africa. O non solo, perlomeno”. Quindi ha ragione Nat Amarteifio, architetto ghanese che ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti, in Canada e in Nigeria e che per quattro anni è stato il sindaco di Accra: “Non è necessario essere nati in Africa per potersi dire afropoliti. È sufficiente guardare le cose con occhi africani”. Uno sguardo disincantato eppure pieno di fiducia, capace di immaginare un futuro diverso, magari fantascientifico, come gli illustratori visionari delle copertine dei nuovi autori di science fiction. Un afrofuturo, forse.