Intervista a Germano Celant sulla nuova sede milanese della Fondazione Prada, che espande il repertorio delle tipologie spaziali in cui l’arte può essere esposta e condivisa con il pubblico.
Quali sono le caratteristiche della nuova Fondazione Prada aperta in Largo Isarco a Milano?
Rispetto alla precedente struttura operativa le differenze sono notevoli. Sul piano degli spazi si è passati dall’utilizzo limitato di edifici, (a Milano, per un breve periodo di tempo dal 1993 al 2010 oppure, a Venezia, Cà Corner della Regina dal 2011 solo nel periodo estivo) a un complesso urbano di quasi 20 mila metri quadrati, composto di diverse entità architettoniche, vecchie e nuove, che saranno attive ed aperte tutto l’anno. L’intervento e il progetto di Rem Koolhaas e del gruppo OMA sul complesso industriale preesistente, una distilleria operativa dagli inizi del novecento collocata nella zona periferica e industriale della città, hanno dato corpo a una struttura multiforme: un arcipelago di diversi spazi architettonici. Questo risultato è dovuto a un’azione di conservazione e di qualificazione degli ambienti ex-industriali e all’ideazione di nuove architetture, la Torre e il Podium. Un dialogo e un’osmosi tra moderno e contemporaneo che arrivano così a interagire, a innestarsi, come rami, in un tronco unico, la Fondazione. La varietà di combinazioni sia di materiali, di colori, di strutture verticali e orizzontali immette nella vita futura dell’ente, fondato da Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, una dinamica aperta e fluida che passa dal minimo al massimo, dal pieno al vuoto, quanto sul piano della programmazione culturale una dimensione disponibile a tutti gli interventi interni ed esterni, nonché a tutti i linguaggi, dall’arte al cinema dal teatro alla letteratura, dalla musica alla danza. Lo stesso organico che sovrintende le operazioni è concepito come aperto alle collaborazioni esterne istituzionali e indipendenti.
In questo mosaico di spazi cosa è successo? Esiste un percorso di lettura?
Muovendosi in una struttura quasi labirintica, composta da molteplici eventi e mostre, è difficile indicare un possibile viaggio. Ognuno troverà il suo. L’avvio del viaggio potrebbe, è una visione personale, basarsi su due accessi di visita che sono legati alla storia della Fondazione e ai suoi fondatori. Il primo affonda le radici nel dialogo diretto con gli artisti e con il sostegno al loro lavoro, che è spesso sfociato in progetti complessi, che venivano definiti “impossibili”. Quindi la partenza potrebbe avvenire dalla “Hounted House” (Casa degli Spiriti), un edificio novecentesco, presumibilmente sede degli uffici della distilleria, che è stato preservato e rinforzato, e presenta all’esterno una superficie totale ricoperta di foglie d’oro. È quasi un simbolo “sacrale” dedicato al ruolo dell’artista, qui esemplificato con opere di Louise Bourgeois e un’installazione permanente di Robert Gober. Due protagonisti della storia del contemporaneo che hanno focalizzato la loro attenzione sulla condizione umana e sulle relazioni tra esseri di diverso genere. Da questo fulcro luminoso e riflettente che irradia la sua aura a tutto il complesso, influenzando la percezione delle altre superfici architettoniche, si potrebbe passare, quasi transitando da una condizione celeste a una terrestre, nel “Grotto” sotterraneo e oscuro di Thomas Demand (1964), realizzato nel 2006 a Venezia, per la Fondazione Prada. È un connettersi alla storia della Fondazione per indicare le radici che sono presenti nel terreno del nuovo complesso museale.
La pianta quale sviluppo ha?
Non è questione di sviluppo, solo di una sommatoria che può essere interpretata apertamente e quindi studiata e analizzata oltre che per le ragioni di contenuto artistico, anche per l’offerta dell’interpretazione delle vicende che hanno marcato la nascita di questo notevole imponente complesso. In questa prospettiva di attraversamento storico metterei quindi “An Introduction”, il cui titolo può servire per sottintendere l’introduzione alla consapevolezza di sé e della storia che è stato il risultato di una passione personale per l’arte, quanto un’indicazione introduttiva all’intera struttura culturale ed operativa della Fondazione. Su tale dialogo tra avventura esistenziale e risultato pubblico si è basata la scelta di un edificio che mantenesse sia le caratteristiche architettoniche della casa sia quelle del museo, di tipo alternativo, tipico degli anni sessanta: l’edificio Sud. Qui la scelta delle opere d’arte è un intreccio di intimo e di intellettuale, per cui passando da una porticina si ha accesso al “Ritratto di Dorian Gray” di Walter de Maria, collocato su un muro di legno che era esattamente quello scelto per la sua mostra nel 1999 alla Fondazione Prada, in cui coincidono il tema del “riflesso su sé” e la scelta dell’artista. Si prosegue con l’interesse, importante per la poetica individuale e lavorativa, per l’arte minimale e concettuale, americana ed europea. È l’inizio di una passione per l’intensità visiva che riecheggia nella vita e nella casa. Da qui la collocazione sorprendente e spettacolare di un capolavoro, quello di Barnett Newman nelle scale, ricoperte di carta da parati. È una dichiarazione intensa e partecipata di un’attitudine a considerare l’arte non per il suo valore ma per la sua influenza sulla propria dimensione vitale, quella della salita e della discesa tra emozioni e dolori. Il percorso continua con un insieme scultoreo di Pino Pascali seguito da uno di Edward Kienholz che sono una dichiarazione sull’impegno gioioso ed insieme politico connesso all’arte, per passare ad una stanza che vede al centro uno studiolo rinascimentale. È, penso, la rappresentazione di un’attenzione allo studio e al raccoglimento personale su sé per capire le vicende della storia che è la base su cui procedere per proiettarsi sul moderno, rappresentato da Schwitters e Cornell, e sul contemporaneo, Vezzoli. Da questa coscienza del tempo e dei contributi linguistici è facile passare alla sala della quadreria, dove sono accumulati oltre 58 opere d’arte, tra cui Fontana, Copley, Novelli, Vedova, Foulke, Richter, Burri, Stella, Dorazio, Manzoni, Tapies, Accardi, Lichtenstein, Wesley… e contemporanei come Koons, Castellani, Marden, Tuymans, Baldessari, Macuga. È una raccolta, collocata su una “rastrelliera” tipica del deposito dei musei, dove sono “appese” le idee diverse e contrastanti dell’arte. Dopo questo insieme numeroso si passa ad uno spazio dedicato al singolo artista, Nathalie Djuberg, così da evidenziare il passaggio di scala, di generazione e di attitudine linguistica che necessita di grandi spazi, per arrivare all’enorme Deposito, dove sono “parcheggiati” veicoli di De Maria, Holler, Van Lieshout, Elmgreen & Dragset, Rehberger e Lucas: è l’ingresso della vita nell’arte e viceversa.
Quali sono le ramificazioni di questi due momenti che riguardano la storia delle persone e della Fondazione?
La più imponente e spettacolare, scientifica e storica è certamente “Serial Classics”, l’esposizione curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola sull’arte classica greca e romana che riconsidera e mette in discussione l’assunto sull’unicum e sull’originalità delle opere d’età romana, mostrando invece il loro carattere seriale. È una lettura che tramite un’interpretazione storica contemporanea avvicina il fare antico a quello attuale, segnato dai multipli d’artista. Certamente uno strappo scientifico e curatoriale che non ha precedenti così da segnare l’informazione tradizionale sul classico. È seguita a Venezia, a Cà Corner, da “Portable Classics” in cui lo stesso fare seriale assume una scala ridotta, in relazione alle richieste dei committenti per sculture a dimensione ambienti interni e studioli. Attraverso queste due esposizioni la Fondazione si apre a tutti i momenti della storia dell’arte, con conseguenze operative innumerevoli ed impreviste, sempre segnate però dall’alto significato scientifico. Ma più di ogni cosa si dichiara disponibile a visioni e a collaborazione che vengono dall’esterno. Possano riguardare argomenti e soggetti di periodi diversi, quanto interpretazioni e linguaggi non canonici. In tal senso anche la struttura operativa e intellettuale – che ruota sul dialogo intenso e continuo tra i presidenti, il soprintendente artistico e scientifico ed il team della Fondazione, con a capo dei vari dipartimenti Astrid Welter, Mario Mainetti e Alessia Salerno, si è data un contributo sistematico, rinnovabile ogni due anni, che è affidato al “Though Council”. È formato da un gruppo di esperti di diverse provenienze ed esperienze che contribuiranno ad un continuo rinnovamento intellettuale e fattivo dell’istituzione. Dal primo Council composto da Shumon Basar, Nicholas Cullinan e Cédric Libert che sarà arricchito in futuro da Elvira Dyangani Ose e Dieter Roelstraete, sono scaturite le letture della collezione, che si tende a considerare una sorta di biblioteca concreta, da cui estrarre oggetti e artefatti per una lettura diversa e nuova dell’arte. Un giacimento di energia che serva a produrre analisi e presentazioni, come “In Part”, curata da Cullinan e “Trittico”, progettata da tutto il Council. Sono due mostre connesse alla struttura particolare degli edifici ex-industriali, la Cisterna e l’edificio Nord, in cui la presenza delle opere d’arte si relaziona o al vuoto (Pascali, Hesse e Hirst) o alla sequenza di pareti, per mostrare le convergenze su un attraverso contenutistico: il frammento da Ray a Picabia, da Paolini a Baldessari.
Il viaggio sembra interminabile e sorprendente. Quali altri momenti lo definiscono?
La struttura architettonica dell’intero complesso arriva a comprendere un Cinema, dotato delle più sofisticate tecnologie, le cui pareti si possono aprire, su progetto di Koolhaas, per creare un grande spazio scenografico, dove realizzare spettacoli di teatro, di danza e di musica, con il pubblico collocato negli spazi aperti. Per l’apertura della Fondazione, Roman Polanski ha realizzato l’inedito “My Inspirations”, un documentario intervista di Laurent Bouzereau in cui il regista compie un viaggio nella memoria dei film visti che hanno influenzato il suo lavoro. Il Cinema diventa così un’ulteriore area di lettura, e si apre a contenere convegni e incontri su tutti i linguaggi. Ma non è finita. Anche il Bar Luce, che è parte della Fondazione, con acceso dall’interno e dall’esterno, è strumento di un altro momento di creatività. Progettato dal regista Wes Anderson è un tipico caffè della vecchia Milano, in una simbiosi tra finzione e realtà. Infine “l’Accademia dei Bambini”, sviluppata da Giannetta Latis, con progettazione ambientale e oggettuale dell’École nationale supérieure d’architecture de Versailles, guidata da Libert e Guenon: qui il gioco si intreccerà all’attività artistica per suggerire ai bambini idee creative e visuali.